The counterfeit kingdom

OUUERO

codventura

Elia Spallanzani e la rappresentazione degli atti linguistici nel teatro rinascimentale

di Raphael Alberto Ventura*

 

Con la sua caduta, Satana ha costituito un falso regno parallelo a quello di Dio, sfidando la Sua autorità. Satana è un usurpatore che rivendica la propria autorità regale esercitandola su un regno temporale[1].

 

A.S.: l’autore desidera innanzitutto ringraziare Chiara Reali per la versione in italiano di questo contributo.

E ora:

Un prologo

Cosa c’entrerà mai Elia Spallanzani col teatro rinascimentale? E’ una domanda legittima e la risposta richiede una lunga introduzione. Cominciamo col dire che l’interesse dello scrittore per il teatro è poco documentato ma vigoroso e risalente. Sappiamo[2] che nei primi anni ’60 aveva scritto la sceneggiatura Triplice circolarità, composta da brani che letti in sequenze diverse raccontano tre storie differenti. L’opera, mai rappresentata, venne poi ridotta al racconto Trittico circolare[3]. Altro tentativo sfortunato fu l’Amleto schizofrenico, con il testo classico ridotto alla voce del solo protagonista e tutti gli altri ruoli sostenuti da strumenti musicali. Nonostante la collaborazione musicale dell’Arrigo Boito Ensemble, la prima fu un fiasco e lo spettacolo non venne mai replicato. Da notare che il metodo era valido, tant’è che sarebbe stato ripreso quarant’anni più tardi nella Lisistrata di Erika Bernardi.

Seguì Sceneggiatura per passeggiate, basata sul presupposto che la vita di molti uomini è così monotona da poterne scrivere la sceneggiatura e attenercisi. Il copione era una sorta di diario al contrario e l’iniziativa apriva la strada a interpretazioni nuove del rapporto con gli spazi tradizionalmente non frequentati dall’attività teatrale, quali parchi e bocciofile.

Di poco successiva, la Sceneggiatura seriale per pendolari riprende l’idea della passeggiata teatrale ma sposta l’azione in un vagone ferroviario, all’insaputa dei viaggiatori. Sembra che durante la parentesi parigina lo stesso Spallanzani abbia interpretato il ruolo del clochard sulla metro, finché le autorità non lo costrinsero a smettere. Trascinato in gendarmeria, Spallanzani osservò che non era un barbone ma lo stava solo interpretando; al che gli risposero di andare a “muovere le marionette” a casa sua, o di trovarsi un teatro[4]: episodio che, come vedremo, costituirà forse il primo spunto per il racconto Fine di un regno. Anche in questo caso Spallanzani si dimostra un precursore: infatti nel marzo del 1998 la Compagnia del Melostrano ha messo “in scena” l’idea sulla tratta ferroviaria Firenze-Pontassieve, con relativo successo.

Tra gli scherzi o esperimenti bisogna ancora menzionare Spettatore privilegiato, una rappresentazione con un solo spettatore (si noterà che Spallanzani arrivava a scegliere i titoli quando aveva ormai esaurito tutta la fantasia). Nel 2003 Zack Pirani ha dato vita a questa idea, realizzando a Bologna lo spettacolo Otto Notti con l’adattamento di un testo di Edgar Allan Poe.

 

Locandina dell’epoca, dall’ archivio Spallanzani.

Locandina dell’epoca, dall’’archivio Spallanzani.

 

Dapprincipio l’opera di Spallanzani sembra quindi muoversi in parallelo con alcune esperienze del Living Theatre, mentre dal ’65 in poi l’autore cercherà di inserire negli spettacoli i temi prediletti della relatività e dell’indeterminazione, giungendo a risultati singolari e forse irripetibili. Il suo primo tentativo in tal senso, ancora legato alle convenzioni teatrali, è l’atto unico Q.E.D., ossia un’inedita drammatizzazione dell’elettrodinamica quantistica. I protagonisti sono due fratelli, ingegnere ed umanista, che litigano sul reale e incidentalmente scoprono di avere entrambi ragione.

Per nulla scoraggiato dall’insuccesso, nel 1967 Spallanzani organizzò e finanziò una rappresentazione ancora più insolita, intitolata Cappio! o della Musa timida, commedia teoricamente in tre atti che però, di fatto, non andrà mai oltre il primo. Stavolta gli attori ripetono la prima scena all’infinito, finché il pubblico non comincia a rumoreggiare. Solo a questo punto gli attori si accorgono del problema e reagiscono cercando di trovare l’origine del cappio, che manco a dirlo è costituito della stessa rappresentazione teatrale; quindi invitano il pubblico ad uscire dal teatro, così che il tempo possa rifluire. Una volta usciti, gli spettatori possono sentire attraverso i tendaggi che il dramma prosegue, ma non appena rientrano per assistere il cappio si riproduce. Ciò perché, secondo Spallanzani, l’unica storia che interessa davvero al pubblico è quella che non può vedere. Si trattava come è ovvio di una provocazione, che scatenò anche dei disordini. A quanto pare la gente non apprezzò il raffinato gioco meta-teatrale e pretese indietro i soldi del biglietto, ma in quel periodo storico frustrare le attese del pubblico sembrava una garanzia di qualità, per cui il clamoroso insuccesso della prima agì paradossalmente da veicolo pubblicitario e l’opera ebbe altre, seppur sporadiche rappresentazioni.

Testimoni dell’epoca riferiscono che Spallanzani fu molto deluso per la piega presa dagli eventi e dichiarò che avrebbe abbandonato il teatro, ma per fortuna non tenne fede alla promessa e l’anno dopo scrisse la sceneggiatura Buona la seconda. L’idea è per molti versi simile a quella del Cappio!, ma il testo è venato da cinismo e amarezza. Ispirandosi alla celebre frase di Marx, Spallanzani realizza un piccolo esperimento di tragedia che mercé la sola ripetizione si trasforma in commedia. Nel primo atto vediamo Amleto il vecchio assassinato nel verziere per la disperazione del figlio e dei famigli. Nel secondo atto l’omicidio si ripete assurdamente identico, come se il tempo fosse allacciato in un nodo (Spallanzani notava che fin qui il suo esperimento era quasi indistinguibile dalla vera tragedia). Nel terzo c’è una sorpresa: lo spettacolo vira sul comico e il vecchio Amleto viene nuovamente assassinato nel verziere, per la disperazione dei figli e dei famigli. Risa registrate sottolineano il trapasso tra le forme[5].

 

Rara locandina dell’epoca, dall’ archivio Spallanzani.

Rara locandina dell’epoca, dall’ archivio Spallanzani.

 

Il momento in cui la riflessione di Spallanzani sul teatro tocca il vertice è indubbiamente il biennio ’68-69. All’epoca insegnava al Liceo Galvani di Bologna e fu molto colpito dai moti studenteschi. Come scrisse anni più tardi alla nipote, gli sembrava che dai dibattiti e dalle manifestazioni salisse un’impressione di irrealtà. Per un periodo pensò addirittura che si trattasse di una rappresentazione, tanto più che il potere reagiva in maniera altrettanto teatrale: nel complesso, tutto gli sembrava un enorme spettacolo d’avanguardia, quello che oggi chiameremmo una performance o un flash mob. Allo stesso tempo però si chiedeva se la rappresentazione non fosse in definitiva più potente della vera protesta.

C’è ancora da dire che dieci anni dopo Spallanzani tornerà sull’argomento durante la polemica con Bruno Vidoni[6] sulla genuinità della foto di Robert Capa The falling soldier (il miliziano repubblicano che cade colpito a morte dalle truppe di Franco). L’episodio merita un cenno: pubblicata il 23 settembre 1936 dal settimanale francese “Vu”, ripresa l’anno successivo da “Life”, la foto del miliziano fece il giro del mondo e diventò quasi un’icona del sacrificio dell’uomo nella lotta alla dittatura. Tuttavia, nel 1975 il giornalista O.D. Gallagher sostenne che era fasulla: Capa gli avrebbe confidato che si trattava di finte azioni inscenate a beneficio della stampa[7]. Soppesati gli argomenti pro e contro, Spallanzani giungeva alla singolare conclusione che forse i miliziani stavano davvero fingendo un’azione di guerra davanti alla macchina di Capa, ma la scena aveva attirato l’attenzione dei nazionalisti, che scambiandola per un vero assalto aprirono il fuoco uccidendo il miliziano[8]. Ancora una volta realtà e rappresentazione si mischiavano inestricabilmente.

Ma torniamo ora al nostro argomento: benché paresse finta, o anzi proprio perché finta, la rivolta del ’68 pareva trasformare il mondo in teatro, e in teatro non valevano più le regole consuete. Sull’onda di questi sentimenti contraddittori Spallanzani scrisse di getto la favola filosofica Fine di un regno[9], proponendo una metafora del rapporto tra teatro e potere.

 

Il Regno Contraffatto

La trama della favola si incentra sulle vicende di un perfido tiranno che opprime il suo popolo con leggi ingiuste.

«Il tiranno si beava di questa sua crudeltà, ma la cosa che amava di più era il teatro. Aveva egli l’abitudine di trascorrere il suo tempo a guardare spettacoli senza curarsi delle vicende del suo regno. Un giorno i senatori gli chiesero di far chiudere il teatro in quanto fonte di confusione nell’applicazione delle leggi. Un attore si era promesso in sposo a un’attrice, secondo copione, e poi la donna aveva preteso di essere sposata per davvero. Un altro era stato decapitato poiché nell’interpretare il ruolo di re sul palco aveva, di fatto, infranto la legge sull’usurpazione. Le leggi del regno erano così severe che ciascuna rappresentazione portava almeno un attore al patibolo a causa delle sue parole, delle sue azioni o dei suoi costumi: così in breve non sarebbero rimasti più attori!
Il re ne rise. La soluzione, pensò, è semplicissima: “Emanerò una legge che sancisce che nessuna delle leggi del regno si applicano a ciò che accade sul palco”.
Ciò fatto il re poté tornare ai suoi piaceri. Il mattino seguente fu svegliato da suoni e musiche provenienti dall’esterno, come se si stesse svolgendo una festa. Guardò fuori dalla finestra: il regno gli apparve differente, ma non riuscì a capire cosa fosse successo. Così uscì dal palazzo, per la prima volta da molto tempo. Ordinò che si ponesse fine a quella confusione, ma nessuno gli prestò ascolto. Fu allora che gli si aprirono gli occhi, e ciò che vide aveva dell’incredibile: in una sola notte, l’intero regno era stato innalzato su un palco dagli operosi cittadini. Nessuna legge era più valida. Il re continuò a dare i suoi ordini ma nessuno gli prestò più attenzione, finché un giorno morì».

Nel suo commento al racconto, Spallanzani osserva che da questa storia possiamo trarre una morale: ossia che il teatro è una specie di varco nella realtà, nel quale si costituiscono situazioni eccezionali. Per via di questa caratteristica, il teatro è una circoscritta terra di libertà: ne deriva che ampliare i confini della rappresentazione equivale a ridurre lo spazio dell’autorità. Di seguito Spallanzani analizza la relazione tra autorità e teatro dal punto di vista dell’autorità e delle sue misure contro il teatro, e dal punto di vista del teatro come caricatura dell’autorità. Questi due segmenti si intersecano in una situazione paradossale, in cui l’azione simulata può diventare indistinguibile dall’azione realmente perpetrata.

Spallanzani parte dalla definizione di rappresentazione come un evento che simula un altro evento senza tuttavia essere lo stesso evento, ma chiarisce subito che se pensiamo all’espressione verbale questa definizione elementare risulta falsa. La frase “tenere un discorso” può significare sia che si sta parlando, sia che si sta recitando: in entrambi i casi la produzione vocale è identica. Inoltre, i discorsi possono essere atti linguistici, nell’accezione di “azioni verbali che accadono nel mondo”[10].

Sul palco la situazione è ovviamente diversa: gli atti vengono simulati e dovrebbero sfuggire a ogni regolamentazione, ma la distinzione tra un discorso vero e uno simulato deve affondare in un qualche principio stabile. Il problema per Spallanzani diventa allora quello di determinare se esista una regola generale per distinguere tra le due cose. Nella sua indagine l’autore presta particolare attenzione all’allentarsi delle misure legali e politiche adottate in Italia tra il 1920 e il 1968 per regolamentare gli spettacoli pubblici. A suo modo di vedere, proprio gli standard di regolamentazione del discorso recitato sarebbero diventati la chiave per comprendere la funzione sovversiva del teatro. Rinviando per maggiori dettagli al saggio di Spallanzani, notiamo che il metodo di indagine potrebbe avere valenza generale e applicarsi anche al di fuori del contesto originario.

In questo articolo perciò continueremo nello stesso solco, esaminando l’inganno e la rappresentazione di discorsi illegali (ad es., la blasfemia) in Inghilterra dopo la Riforma, per poi passare al problema dell’usurpazione teatrale dell’autorità regale. Perché la parola non è solo la materia sulla quale l’autorità deve esercitare un controllo, ma la materia stessa di cui l’autorità è fatta.

 

Atti linguistici ingannevoli: «Spergiuro, spergiuro nel più alto grado»[11]

Per convincere Stefano a uccidere Prospero, Calibano descrive le ricchezze dell’isola e la bellezza di Miranda, la figlia del mago. Afferma: «Sì, mio re: degna del tuo letto, giuro; e ti darà splendidi figli»[12].

È probabile che non stia mentendo, ma che dire dell’attore che lo interpreta? Sta promettendo ciò che non può mantenere. E la proposta di matrimonio di Bassanio a Porzia nel Mercante di Venezia? L’attore sta mentendo o sposerà l’attrice per davvero? E nel finale della stessa opera, che pensare dell’affermazione di Bassanio: «Perdonami questa colpa, e per l’anima mia ti giuro che non romperò mai più un giuramento che io ti faccia»? Non si tratta semplicemente di parole, anche se «Giove dall’alto ride degli spergiuri degli amanti»[13]. Si tratta, appunto, di spergiuro. Le promesse coinvolgono il parlante, ma se anche il parlante fosse solo il personaggio, sarebbe l’attore stesso a parlare – quindi si sta impegnando a mantenerle?

Questi esempi ricadono nella categoria degli atti linguistici, fondamento della pragmatica del linguaggio di John Austin. Imprecare, promettere, sfidare a duello, giudicare, ordinare – sono tutti atti linguistici. Il teatro è costituito di atti linguistici (o di atti linguistici simulati) per l’immediatezza della loro funzione drammaturgica[14]. Per via della loro natura di azioni, queste proposizioni possono diventare oggetto di legislazione. Una promessa informale non è un accordo tra gentiluomini, che attiene solo all’onore delle parti: è un contratto orale e, in quanto tale, può essere legalmente vincolante[15]. Sappiamo, dal Mercante di Venezia, quanto possa essere preso seriamente un contratto: ciò che ora ci sembra buffo può diventare drammaticamente letterale. La sanguinolenta clausola di Shylock viene presentata come un “favore”, uno scherzo[16], ma l’usuraio non sta recitando o parlando per metafore: esige la libbra di carne nel suo significato letterale (e perderà proprio a causa di questo stesso significato letterale). Tutte le parti che contraggono il vincolo sono legate e non possono romperlo senza infrangere la legge divina:

«Ho giurato, ho giurato, ho giurato al Cielo!
Dovrò commettere spergiuro?»[17].

Certo una dichiarazione orale ha solitamente un valore legale debole poiché i suoi termini sono vaghi e non verificabili, e deve essere provata la sua stessa esistenza: ma a teatro, l’intero pubblico è lì a testimoniare delle parole pronunciate dall’attore. Un atto linguistico e un atto linguistico simulato, come anticipato, hanno lo stesso identico suono: sono quindi fatti della stessa materia. Non c’è differenza tangibile tra una promessa reale e la sua rappresentazione, tra una vera sfida e la sua rappresentazione, tra la blasfemia e la sua rappresentazione. Più in generale, non c’è differenza tangibile tra l’autorità e la rappresentazione dell’autorità: e questo è il motivo per cui l’autorità in genere cerca di proteggere sé stessa dall’usurpazione punendo gli atti linguistici ingannevoli. La funzione del sistema sociale e la sopravvivenza dell’autorità dipendono da una regola che distingua tra l’autorità stessa e la sua simulazione, e tra l’infrazione e la sua simulazione.

Seguendo questa distinzione, le asseverazioni degli attori non sono viste come atti linguistici efficaci né ingannevoli: ma in che modo viene compiuta la distinzione? Austin ha scritto un libro sul paradosso della falsità degli enunciati performativi sul palco: «Un enunciato performativo […] sarà a ogni modo falso o vuoto se pronunciato da un attore sul palcoscenico». Il brano prosegue: «[…] In tali circostanze il linguaggio viene usato in modi particolari – in maniera intellegibile – non seriamente, ma in modi parassitici del suo uso normale – modi che rientrano nella teoria degli eziolamenti del linguaggio. Noi escludiamo tutto ciò dal nostro esame»[18].

La regola (per stabilire se un atto linguistico sia da considerarsi falso) è perciò la seguente: sta accadendo su un palco o no? Nel linguaggio della filosofia analitica, le condizioni necessarie perché un atto linguistico abbia valore vengono chiamate felicity conditions, “condizioni appropriate”. Dovremmo quindi definire l’occorrenza sul palco di un enunciato performativo come una condizione inappropriata – una condizione per il fallimento dell’atto.

Di conseguenza, il teatro meriterà uno status legale eccezionale: o il palco è il luogo sul quale i discorsi performativi non sono atti linguistici e quindi non hanno valore legale; o è il luogo nel quale l’infrazione della legge (un atto linguistico falso è ingannevole) non può essere perseguito penalmente. In entrambi i casi ciò che accade sembra avvenire in un vuoto metalegislativo, al riparo dall’autorità.

Al riguardo già Spallanzani notava che la nascita dei teatri come luoghi fisici consacrati alla performance, nella metà del Sedicesimo secolo, è coerente con il progetto di una regolazione legale degli atti performativi. Il teatro che “esce dal teatro” e dilaga per le strade è quindi eminentemente pericoloso[19].

Detto questo, ci rendiamo conto che gli esempi di Shylock e Calibano sono, in linea di massima, di scarso rilievo. La soluzione della loro ambiguità è un riflesso innato del senso comune e del costume, e il potere non ha bisogno di codificare lo status legale della rappresentazione per tenerli sotto controllo. Ma, ci si domanda, se invece riguardassero questioni politiche? La situazione cambierebbe, e tutti questi paradossi astratti rivelerebbero il loro potere sovversivo.

Come dovrebbe essere gestita dall’autorità la rappresentazione del dissenso – rappresentazione non poi così diversa dal dissenso stesso? L’autorità non potrebbe che cercare di riconquistare la terra delle eccezioni: ovvero fare un’eccezione all’eccezione.

 

Blasfemia

Il potere del teatro sta nel permettere ai suoi personaggi di esprimere opinioni che non potrebbero mai essere espresse in modo diretto. Questa è la forza della messa in scena, che implica una distanza dall’oggetto rappresentato. A teatro, queste indicibili opinioni possono essere espresse recitandole: pensiamo per esempio al modo in cui ci viene mostrato il lato oscuro del potere politico in regni immaginari o stranieri in Macbeth, in Amleto o nel Re Lear. Quando l’opinione è particolarmente inaccettabile, uno dei modi per esprimerla è metterla in bocca a un personaggio scomodo. In tal senso, il lavoro di Christopher Marlowe sembra l’esperimento più radicale, poiché vi si perfeziona questa strategia di distanziamento: la malvagità di Barabba, l’Ebreo di Malta, gli permette di innalzare inni all’immoralità, al teismo aristotelico («le piaghe d’Egitto e la maledizione del cielo infliggi su di loro, oh grande Primus Motor[20]) e alcune riflessioni machiavelliche sull’illegittimità del potere.

Una strategia simile viene utilizzata da Shakespeare, che scrive una dichiarazione di uguaglianza utilizzando la copertura dell’antisemitismo: pensiamo al famoso monologo, «un ebreo non ha occhi…?»[21]. Ma, al contrario di Barabba, Shylock è così profondamente umano che la strategia di distanziamento fallisce: a Shakespeare mancava la grezza fantasia caricaturale del suo predecessore.

L’impresa più coraggiosa di Marlowe è la derisione della religione. Il dottor Faustus, per avere venduto la sua anima a Lucifero, è libero (tra le altre cose) di schiaffeggiare il Papa[22]: se oggi la scena suscita il nostro riso, dobbiamo immaginare il senso di libertà che tale riso poteva ispirare nel 1594. In Edoardo II, Gaveston invoca chiaramente la laicità attraverso l’utilizzo di una liberatoria blasfemia:

«Perché un re dev’essere soggetto a un prete?
Roma superba, che covi simili servi imperiali.
Per i suoi superstiziosi ceri,
Con cui illumini le tue chiese anticristiane,
Darò fuoco ai tuoi edifici in rovina
E costringerò le torri papali a baciare la terra.
Gonfierò il Tevere di preti massacrati,
Ed eleverò gli argini con i loro sepolcri
Quanto ai pari che appoggiano il clero
Se sono re, non uno di loro vivrà»[23].

In effetti, dopo la Riforma un’invettiva contro la Chiesa di Roma in Inghilterra sarà stata vista con favore. Cionondimeno, la questione è delicata. Invocare la morte di un prete non è certo l’augurio più pacifico da farsi, specie in un momento in cui la blasfemia è l’oggetto principale della censura. Molte erano infatti le misure prese contro la bestemmia, il che lascia intendere che l’atto di bestemmiare fosse normale come quello di respirare. Al teatro veniva chiesto di non essere realistico, poiché, in caso di blasfemia, una rappresentazione realistica del crimine sarebbe equivalsa al crimine stesso. È il motivo per cui gli autori teatrali svilupparono l’utilizzo di eufemismi come “sfaith” (“God’s faith!”), “sdeath” (“God’s death”), “slight” (“God’s light!”), che divennero poi oggetto essi stessi di censura, dopo che avevano iniziato a sostituire la bestemmia nel linguaggio popolare. Per aggirare il problema, Gaveston bestemmia Dio in francese[24] e Shakespeare utilizzerà gli stessi eufemismi nell’Edoardo III[25].

Certo, un giuramento recitato non dovrebbe essere considerato come un vero giuramento. Il crimine non sta in ciò che si pronuncia, ma in ciò che sottintende: l’infrazione del secondo comandamento, l’invocazione di Dio – non la semplice menzione del Suo nome. Se la regola è di considerare neutralizzata la verità di un atto linguistico per il semplice fatto che viene recitato su un palcoscenico, allora nessuna blasfemia dovrebbe essere condannata. Ma al contrario di tutti gli altri atti linguistici recitati – eccezione tra le eccezioni – la blasfemia viene invece perseguita. Il che avveniva fino a tempi recenti, come osservava Spallanzani riguardo alla situazione del 1969[26].

Ci sono vari motivi per questa incoerenza, il primo teologico: i teatri potranno anche essere un varco nello spazio della legge civile, ma si trovano comunque sotto il giudizio divino. Il secondo motivo è politico. Prima della Riforma, in Inghilterra «tutte le attività di recitazione erano eventi occasionali, che ricadevano naturalmente sotto il controllo di chi li stava commissionando – i reali, i nobili, il consiglio cittadino o la chiesa»[27]. Tutto cambiò con Enrico VIII: il teatro divenne un problema politico[28]. Dal gran numero di documenti sull’amministrazione delle rappresentazioni possiamo intuire che il teatro era principalmente un problema sociale (a volte ricompreso nel vagabondaggio) e che «controllare il contenuto delle opere non era una delle priorità del governo»[29]. Il problema sociale era principalmente legato alla complessa situazione religiosa, e la prima vittoria di questa campagna fu la morte del genere teatrale più popolare, i Misteri. Nel 1541 tre attori condannati per eresia vennero bruciati a Salisbury «per avere recitato un intermezzo nel quale si inveiva contro preti chiamandoli furfanti»[30].

Nel 1543, in seguito alle insurrezioni causate da un Mistero, il re vietò qualsiasi spettacolo che «riguardasse l’interpretazione delle Scritture»[31]. In quegli anni iniziò un’azione «formale, legislativa, contro il teatro», dovuta all’intrecciarsi di preoccupazioni religiose e politiche e «il governo divenne sempre più consapevole dei pericoli che il teatro stava giungendo a rappresentare come strumento per sollevare opposizione alle leggi e invitare alla ribellione»[32]. Gli autori considerati colpevoli vennero arrestati e condannati[33]. Il sistema di regolamentazione venne allora perfezionato. Dal 1559 in Inghilterra le autorità locali ebbero il potere di proibire le rappresentazioni «in cui venissero affrontate questioni religiose o di governo riguardanti il bene comune»[34], rifiutandosi di rilasciare le necessarie licenze. In seguito fu istituita la figura del Master of the Revels, il sovrintendente ai divertimenti[35], che però, almeno in apparenza, riguardava più la gestione di volgarità e oscenità che quella di opinioni sovversive[36].

 

Usurpazione: «Via false vesti!»[37]

Dando la caccia alla blasfemia e cercando di mitigare ogni ricaduta sociale, imbrigliando il tentativo marginale di sovvertire l’ordine morale, l’autorità perse completamente di vista il potere sovversivo del teatro stesso. La sovversione spesso è più subdola, paziente e raffinata del potere. Nessuno comprese il punto essenziale: e cioè che la semplice rappresentazione dei meccanismi dell’autorità e della sua sovversione è essa stessa un atto sovversivo[38].

L’abolizione dei Misteri derivò parzialmente dalla consapevolezza della mostruosità di queste rappresentazioni, forme dissimulate di iconolatria:

«Quale malvagità, quale blasfemia deificare un attore e innalzarlo al trono, alla maestà di Dio stesso, la persona del padre eterno, del figlio, Dio di gloria sul palco!»[39].

Tuttavia l’autorità si sgretola ugualmente in relazione alla sua stessa rappresentazione, i palchi si popolano di Lord, di nobili, di re che compiono atti linguistici. Con l’atto di conferimento un re trasforma chiunque in un altro produttore di atti linguistici autoritativi. La parola di re Edoardo basta a rendere Gaveston influente a corte:

«Ti nomino Gran Ciambellano, primo segretario di Stato e mio, conte di Cornovaglia, re e signore dell’isola di Man»[40].

L’atto linguistico primario dell’autorità consiste nel dare ordini, che non sono né falsi né ingannevoli se soddisfano le condizioni necessarie, per esempio la sincerità. Se però queste condizioni non sono rispettate, l’atto linguistico diventa ingannevole. C’è un passaggio nel Riccardo III che riguarda queste condizioni necessarie di un atto linguistico: Riccardo vorrebbe giurare, ma non trova un soggetto per il suo giuramento. Elisabetta gli ricorda: «Se vuoi giurare ed essere creduto, trova cosa da te non oltraggiata»[41] e Riccardo cerca invano di trovarla. Per lui non sussistono le condizioni necessarie per giurare, perciò il suo discorso è falso. La stessa situazione viene replicata da Shakespeare in Romeo e Giulietta: «non giurare sulla luna» […] «non giurare per niente» […] «non giurare, di grazia»[42].

La più elementare delle felicity condition, dopo la sincerità, riguarda la natura del parlante. Alcuni atti linguistici devono essere pronunciati da una specifica classe di parlanti: solo un prete può unire in matrimonio due persone, solo un giudice può condannare, e così via. Un ordine pronunciato dal re è un atto linguistico poiché egli è il re. Ma immaginiamo un usurpatore, come Riccardo III: mancando di legittimità non soddisferebbe le condizioni necessarie, eppure i suoi ordini vengono assecondati perché l’usurpatore è identico al re. Lo stesso accade a Porzia nel Mercante di Venezia: travestita da giudice emette una sentenza, che viene rispettata. Ciò in quanto «un atto linguistico, per essere efficace, non ha bisogno di una reale soddisfazione delle condizioni ma solo dell’apparenza della soddisfazione»[43]. Un giudizio abbisogna di varie condizioni, per esempio uno spazio dedicato (il tribunale); alcuni riti sociali richiedono un tempo specifico, che sia del giorno, della settimana o dell’anno; ma l’essere re non ha limiti spazio-temporali, se non quelli legati alla vita stessa del regno e del re. Sembrare un re basta a soddisfare le condizioni di autorità. Per questo il fingersi re viene punito come un’usurpazione. Secondo Marlowe «Giove, che usurpò il trono del padre/sarà condannato all’inferno»[44] e questo è il modo in cui venne trattato il problema dell’usurpazione durante il Rinascimento.

Ma cosa serve per apparire un re? O, stando alla nota domanda retorica di Erasmo:

«Se un collare, uno scettro, un abito purpureo e una schiera di adulatori bastassero a fare un sovrano, che cosa dunque impedirebbe agli attori tragici, che sulla scena si presentano così agghindati, d’essere effettivamente considerati come dei re? Come si distingue il principe dall’attore?»[45].

Questo è il punto: l’autorità esiste solo grazie ai suoi simboli, per cui la sua rappresentazione è una ripresentazione. Esiste un’intera teologia dell’autorità sviluppatasi dagli inizi del Medioevo, e in particolare dalla civilizzazione bizantina, che dimostra quanto spesso l’autorità venga sovrapposta o confusa con la sua rappresentazione. Pensiamo, per esempio, alle parole di Sant’Atanasio:

«La forma e l’idea del re sono nell’immagine, e l’idea rappresentata dall’immagine è in lui. La somiglianza nell’immagine del re lo rende indistinguibile, così che chi guardi all’immagine veda in essa il re e riconosca che il re vi è rappresentato. Come risultato dell’indistinguibilità dei simili, l’immagine potrebbe suggerire, “Io e il re siamo uno: poiché io sono in lui e lui è in me”»[46].

In quanto duplicazione dell’autorità, il teatro rivela la sua fragilità e mina la sua legittimità, che è fondata su un sottile e superficiale ologramma: lo spettacolo. La finzione teatrale sembra soddisfare un numero sufficiente di condizioni per mirare alla sostituzione del potere sociale e politico. Questa è la principale contraffazione del discorso che avviene sul palcoscenico: l’autorità viene usurpata (a ogni livello gerarchico) dalla sua stessa rappresentazione. L’atto originario – impersonare il re – corrompe l’intera struttura dell’autorità da lui legittimata. Questa gerarchia di legittimazioni è chiaramente espressa dal calligramma a colonna di George Puttenham, un’interpretazione grafica dell’idea di autorità reale come “colonna incoronata”. Il fondamento dell’intero sistema (il primo verso) è il “nobile ritratto” – in altre parole la pura immagine di regalità – che pompa legittimità nelle arterie di una struttura di potere[47].

Perciò, se al pubblico venisse mostrato un finto re, dovrebbe protestare come Costanza nel Re Giovanni[48].

«Douglas: Chi sei tu, che falsifichi
la persona di un re?
Il Re: Il re in persona […]
Douglas: Ho paura che tu sia
un’altra imitazione»[49].

La rappresentazione fa sì che l’autorità legittima sia indistinguibile dalla sua illegittima simulazione. Pensiamo alla machiavellica domanda insita nelle tragedie e nelle opere storiche di Shakespeare, rivolta direttamente dall’Ebreo di Malta di Marlowe: «Che diritto all’impero vantava mai Cesare?»[50]. Nessuno: impose se stesso come produttore di atti linguistici autoritari.

Quindi l’autorità è di per se stessa contraffatta, e la realtà dev’essere capovolta. Ed è questo il primo significato dal breve racconto Spallanzanesco, in cui non solo il re issato suo malgrado sul palco smette per ciò solo di essere realmente il re, ma l’intero sistema di produzione normativa perde ogni valore.

Nel teatro rinascimentale questo rovesciamento viene evocato continuamente. Se Amleto, come suggerisce Pirandello, è un’opera che riguarda preoccupazioni metafisiche, il suo centro è la scena della rappresentazione nella rappresentazione (atto III, scena 2), dove il crimine viene finalmente rivelato. Il sottinteso metafisico è che in un mondo al rovescio, l’unico momento di verità stia nella performance teatrale. Di qui deriva l’assunto che la contraffazione teatrale inverta una contraffazione precedente.

Il reame contraffatto può non essere quello sul palco, ma il regno dell’abuso e della tirannia che viene lì rappresentato. Come espresso da molti pensatori cristiani, i regni terreni sono caricature oscene del regno di Dio – un riferimento metaforico alla messa in scena dell’autorità umana. In tal senso, il teatro è la caricatura di una caricatura. Come nel famoso sketch muto dei Lumière, L’innaffiatore innaffiato la rappresentazione teatrale concretizza la grottesca situazione di un usurpatore usurpato. Che si rivela come usurpatore venendo usurpato, perché (ed è questo il secondo significato del racconto di Spallanzani) il meccanismo dell’usurpazione è lo stesso dell’autorità: la messa in scena delle condizioni appropriate (un collare, uno scettro, un abito purpureo e una schiera di adulatori…) per una data classe di atti linguistici.

 

* Nota sull’autore

Il franco-veneto Raphael Alberto Ventura è nato semplicemente Raffaele, ma è stato costretto ad aggiungere l’Alberto per distinguersi dai suoi molti e ingombranti omonimi, tra cui un attivista di Autonomia Operaia, un produttore cinematografico di Casablanca e un fotografo di matrimoni.
È socio fondatore dell’Associazione “Amici di Arrigo Boito” e sin dal 2004 riveste la carica di Ierofante presso la Fondazione Elia Spallanzani. Nel 2005 pubblica e diffonde il racconto filosofico Le Ultime Avventure di Gummo, che (per pura malizia) spaccia per un plagio.
Nel 2007 insieme al suo pseudonimo “Dhalgren” diventa maestro presso l’Opificio di Teologia Potenziale e scrive Le grandi figure della cristianità, vincitore del Premio Subway. Subito dopo si laurea in filosofia con una tesi sul principio di indeterminazione applicato alla dottrina della presenza eucaristica e coordina il palinsesto di informazione, cultura e fiction di Radio Ca’ Foscari.
Nel 2012 pubblica il pamphlet Anonymous – La grande truffa. Dal 2013 collabora con Il Post insieme a Giacomo Nanni. È autore di numerosi e fortunati articoli, di cui non si riportano i titoli perché rafforzerebbero l’impressione che si tratti di un fake.

 

Note

[1] John W Schmitt, Messiah’s Coming Temple: Ezekiel’s Prophetic Vision of the Future Temple, Kregel Publications, 1997, p. 160.

[2] Traggo la maggior parte delle informazioni di questo capitolo dal piccolo saggio dello stesso Spallanzani, Dietro un sipario nero, in Altri Crocevia, Bologna, FEIC, 1969, pp. 101-107. Delle sue sceneggiature è rimasto ben poco: a quanto pare erano scritte su registri scolastici inutilizzati e venivano conservate nella stanza dei docenti, per cui caddero preda degli studenti durante l’occupazione del Liceo Galvani.

[3] In Altri Crocevia, cit., pp. 12-16. Il racconto costituisce solo una parte del testo originale ed è stato riproposto in forma animata dalla Biblioteca di Letteratura Impubblicabile (BiBletImp) di Gherardo Bortolotti e Samuel Zarbock, nonché pubblicato in Antologia del Fantastico Italiano Underground, ed. Il Foglio, 2006.

[4] Così riferisce Jean Lescure nel suo Journal, lasciando intendere che potrebbe anche essere andata diversamente.

[5] Il lettore attento noterà il legame con il romanzo Crocevia.

[6] Si veda Mariateresa Alberti e Roberto Roda, Bruno Vidoni – le inattendibilità del vero. Provocazioni d’arte, Sometti, 2013.

[7] Così riferisce Phillip Knightley in The First Casualty: From the Crimea to Vietnam; The War Correspondent as Hero, Propagandist, and Myth Maker, 1976, trad. Il Dio della Guerra, Garzanti, 1978.

[8] Richard Whelan sostiene una tesi molto simile nell’articolo Proving that Robert Capa’s “Falling Soldier” is Genuine: A Detective Story, pubblicato sul rivista Aperture, n. 166, 2002.

[9] E. Spallanzani, Altri Crocevia, cit., pp. 55-62.

[10] Jacob L. Mey, Pragmatics: an introduction, Blackwell Publishing, 2001, p. 95.

[11] William Shakespeare, Riccardo III, V.3, v. 197. Per tutte le opere si fa riferimento all’edizione italiana Teatro completo di William Shakespeare, a cura di Giorgio Melchiori, Milano, Mondadori (I meridiani).

[12] W. Shakespeare, La Tempesta, III.2, v. 105-106.

[13] W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, II.2, v. 92-93.

[14] «Nel dramma il dialogo è meno uno scambio di opinioni e argomenti che la messa in atto di un conflitto tra atti linguistici», Manfred Pfister, The philosophical and the dramatic dialogue, in E. S. Shaffer, Comparative Criticism, Volume 20: Philosophical Dialogues, Cambridge University Press, 1998, p. 3-16.

[15] Si veda Alfred W Simpson, A History of the Common Law of Contract: Volume I, “III: Debt on informal contracts”, Oxford University Press, 1975, p. 136.

[16] W. Shakespeare, Il Mercante di Venezia, I.3, v. 143.

[17] Ibid., IV.1 v. 223-4.

[18] John L. Austin, How to Do Things with Words, p. 21-22 (trad. it. Come fare cose con le parole, Genova, Marinetti, 1987). La traduttrice osserva: «L’eziolamento consiste nel progressivo ingiallirsi e imbianchirsi degli organi verdi di piante che crescono in condizioni di luce troppo scarse, dovuto alla mancata formazione di clorofilla. L’uso di una tale metafora da parte di Austin suggerisce che egli intendesse citazione, teatro, poesia eccetera come usi linguistici “sottratti” almeno in parte alla “luce del sole” delle condizioni normali della comunicazione». Jacques Derrida ha proposto un’acuta critica di questo passo, notando che escludere da una teoria del linguaggio tutti gli usi parassitici significa escluderne la parte più importante di ciò che il linguaggio è. Questo è proprio il problema del contratto di Shylock, che in realtà è scritto in linguaggio parassitario, preso nel suo significato letterale.

[19] Sul processo di “deteatralizzazione teatrale” si veda anche M. De Marinis, Il nuovo teatro 1947-1970, Bompiani, Milano 2005. Spallanzani tornò spesso sul tema, fino a rovesciarlo in satira. Nel 1979 immaginò un parco a tema sul ’68 italiano, animato da nostalgici delle vecchie fazioni. Il parco assumeva così toni sinistri o grotteschi poiché, come notò Asor Rosa, consentiva «da un lato l’impiego e il controllo delle scorie politiche, e dall’altro la turistificazione dell’ideologia».

[20] Christopher Marlowe, L’Ebreo di Malta, I, v. 160, trad. it. a cura di Rocco Coronato, Venezia, Marsilio, 2007.

[21] W. Shakespeare, Il Mercante di Venezia, III, 1, v. 55.

[22] C. Marlowe, Doctor Faustus, scena ix, trad. it. a cura di Nemi D’Agostino, Milano, Mondadori, 1983-92.

[23] C. Marlowe, Edoardo II, I.4, v. 97-106, trad. it. a cura di Rosanna Camerlingo, Venezia, Marsilio, 2004.

[24] Ibid., I.1, v. 89.

[25] W. Shakespeare, Edoardo III, IV.6, v. 40.

[26] Ancora nel 1980 la Cassazione Penale ha confermato una condanna per “vilipendio della religione dello Stato”, precisando che «L’anti-giuridicità del fatto non viene meno se la manifestazione obiettivamente vilipendiosa sia finalizzata a suscitare il riso o il divertimento delle persone in uno spettacolo teatrale».

[27] John R. Elliott, Playing God: Mediaeval Mysteries on the Modern Stage, University of Toronto Press, 1989, p.4.

[28] Per un nutrito elenco di documenti che testimoniano delle misure politiche riguardanti il teatro in Inghilterra durante il Rinascimento si veda la prima parte del volume Theatre in Europe: a documentary history. English Professional Theatre, 1530-1660, a cura di G. Wickham, H. Berry and W. Ingram.

[29] «Come ho suggerito, i censori ufficiali si preoccupavano meno di controllare l’espressione che di tenere sotto controllo le compagnie di recitazione e i locali. Al contrario, i riformatori morali non avevano interessi economici in gioco nei teatri. Quello che cercavano di ottenere era di ripulire la scena o, meglio ancora, di farla chiudere del tutto. Se si vuole trovare un censore che esamina i testi teatrali in cerca di materiale discutibile da eliminare, bisogna quindi tralasciare i censori ufficiali, come Herbert e i Killigrews e guardare invece a quelli non ufficiali, come Collier. Ciò non vuol dire che il governo fosse del tutto disinteressato a censurare il contenuto delle opere. Come mostrerò, ci sono stati molti casi di censura governativa tra il 1660 e il 1710, ma resta il fatto che il controllo del contenuto dei testi non era una priorità né elevata né costante per il governo», Matthew J. Kinservik, Theatrical Regulation during the Restoration Period, in Sue Owen, A Companion to Restoration Drama, p. 38.

[30] Theatre in Europe, cit., p. iv.

[31] Playing God, cit., p. 7.

[32] Theatre in Europe, cit., p. 17.

[33] Ibid., p. 41-45.

[34] Louis Montrose, The Purpose of Playing: Shakespeare and the Cultural Politics of the Elizabethan Theatre, University Of Chicago Press, 1996, p. 24.

[35] Martin Banham (a cura di), Censorship, in The Cambridge Guide to Theatre, Cambridge University Press, 1995, p. 179. E nel 1606, «per prevenire ed evitare il grande abuso del santo nome di Dio durante le rappresentazioni» fu stabilita una tassa di dieci pounds (An Act to restrain abuses of players, 27 Maggio 1606, p. 131).

[36] Quest’ostinazione nel censurare la blasfemia non è poi così incomprensibile. Basta pensare a ciò che è successo in tutto il mondo a causa di alcune vignette su Maometto per capire che gli scrupoli religiosi possono diventare un’emergenza sociale. In questo senso, l’istituzione del responsabile della censura reale fu un grande passo avanti, almeno nel prevenire conseguenze pericolose per gli attori e gli scrittori.

[37] C. Marlowe, Edoardo II, IV.7, v. 97.

[38] Tornano alla mente le considerazioni di Spallanzani sul ’68: lo scontro tra studenti e polizia forse sembrava un balletto, ma la semplice partecipazione del potere a una recita ne minava l’autorità.

[39] William Prynne, Histriomatrix, 1667, citato in J. R. Elliott, Playing God, cit., p.3. Il problema non era nuovo. Negli Uccelli di Aristofane Evelpidès e Pisthétairos si apprestano a officiare un olocausto chiamando un sacerdote, procurandosi una cesta, dell’acqua, e un ariete da immolare. Il prete inizia una preghiera delirante a tema uccellesco e Pisthétairos lo accompagna con gioiose bestemmie-calembour, come: “Apollo con patate”. Quindi Pisthétairos decide di sbrigarsela da solo, scaccia il sacerdote e inizia le abluzioni rituali. Quando arriva il momento del sacrificio però annuncia: «usciamo di scena per immolare agli dei questo ariete». La suprema bestemmia — il rito ripetuto — è nascosta. C’è ancora una cosa che non si può fare sulla scena: falsificare il rito, ovvero produrre una messa in scena del tutto indistinguibile dal rito vero. Questo davvero renderebbe vano l’intero culto.

[40] C. Marlowe, Edoardo II, I.1, v. 154-156.

[41] W. Shakespeare, Riccardo III, IV.4, v. 377.

[42] W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, II.2, v. 109-116.

[43] E. Spallanzani, cit., pag. 61.

[44] C. Marlowe, Hero and Leander, v. 452-453, in The Penguin Book of Renaissance Verse 1509-1659, Penguin Classics, 1993, p. 266, trad. it. Ero e Leandro, Torino, Einaudi, 1971.

[45] Erasmo, Institutio principis christiani (1, 27), 1515, trad. it. L’educazione del principe cristiano, a cura di D. Canfora, Bari, Edizioni di Pagina, 2009.

[46] Oratio III contra Arianos 5 (PG XXVI 332) in S. R. F. Price, Rituals and Power: The Roman Imperial Cult in Asia Minor, Cambridge University Press, 1985, p. 204.

[47] George Puttenham, Her Majestie resembled to the crowned piller, in The Penguin Book of Renaissance Verse 1509-1659, cit., p. 98.

[48] W. Shakespeare, Re Giovanni, III, 1, v. 99-101.

[49] W. Shakespeare, Enrico IV, parte prima, V.3, v. 26-34.

[50] C. Marlowe, L’Ebreo di Malta, prologo, v. 19.

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