Tra i numerosi gruppi ereticali che nacquero, si formarono e scomparvero (alcuni dopo appena pochi anni) nei primi secoli del Cristianesimo, un posto di rilievo spetta alla setta dei leucolatri, se non per la diffusione almeno per la particolarità del loro credo e per l’influenza esercitata su altri, successivi movimenti religiosi.
Il gruppo era strutturato in microcomunità prive di connessioni reciproche ma organizzate attorno a un centro rituale, la città di Andrapa (nell’odierna Turchia). Il periodo di sviluppo può essere collocato tra il IV e il VII secolo; la diffusione è incerta ma il bacino di seguaci interessava tutta l’Asia Minore.
Un accenno in una lettera di Gregorio di Nissa ci permette di stabilire che nella città di Andrapa, a poche miglia da Nissa, sulle rive del lago Tatta, si adorava un aphanes prosopon, ossia un Volto Santo, un’immagine del volto di Cristo impressa su un velo di natura del tutto peculiare, giacché il tessuto era completamente privo di segni o coloriture. Secondo uno scolio nel Panarion adversus omnes haereses di Epifanio (particolarmente interessante per il numero di informazioni contenutevi) i leucolatri affermavano che l’aphanes prosopon fosse il velo col quale santa Veronica aveva asciugato il volto di Nostro Signore e su cui si era miracolosamente impressa la forma del viso di Cristo; questo velo portentoso era poi stato lavato insieme agli altri panni di casa dalla sorella di santa Veronica, santa Immacolata.
I leucolatri giustificavano – e anzi celebravano – la perdita di una così mirabile reliquia invocando le parole che Eusebio, vescovo di Cesarea, aveva rivolto a Costanza, sorella dell’imperatore Costantino, quando costei lo aveva interrogato in merito al proprio desiderio di possedere un’immagine di Cristo. Eusebio rispose che ciò era impossibile e chiese a Costanza quale corpo desiderasse realmente vedere nell’immagine: quello «vero e immutabile», nel quale si manifestavano i caratteri divini del Cristo, oppure quello che quando era in vita lo «racchiudeva nella figura di un servo?»[1].
L’atteggiamento dei leucolatri rispetto alle raffigurazioni di Cristo era sostanzialmente simile a quello assunto dai cristiani nelle loro polemiche antipagane e anti idolatre: spesso citavano la frase di Tertulliano secondo cui è inutile credere che un dio alloggi nel legno di una statua o nel colore di un’immagine[2] e affermavano, sempre con Tertulliano, che Dio «è invisibile, sebbene si veda» (invisibilis est, etsi videatur)[3] per giustificare la loro adorazione di un velo aniconico.
A questo proposito nello scolio all’opera di Epifanio si rammenta come durante il Sabato Santo l’aphanes prosopon venisse portato in processione per le vie di Andrapa, fino al pubblico lavatoio, dove una donna, scelta dagli anziani della setta, lo lavava e stendeva ad asciugare di fronte alla popolazione che si radunava numerosa per assistere (si trattava, dunque, di una sorta di ostensione). Per capire quali fossero le ragioni teologiche di questo comportamento è necessario ricorrere all’altra fonte principale sull’eresia dei Leucolatri, il De sectis di Didimo il Cieco, dove si afferma che gli aderenti alla setta desideravano impossessarsi dei numerosi Volti Santi allo scopo di “lavarli”, ovvero riportarli al loro stato naturale, perché essi asserivano di riconoscere nella chiarità della stoffa grezza meglio che in qualsiasi immagine l’essenza divina del Cristo nell’invisibilità che le è propria (aphanes ousia).
Durante l’ostensione, prosegue Epifanio, numerosi partecipanti indossavano vesti bianche, mentre altri, uomini e donne, si denudavano rimanendo col solo perizoma e si lordavano il corpo con un impasto di gesso o biacca.
Lo scolio di Epifanio ci informa anche a proposito di alcuni costumi leucolatrici, descrivendo (e bollando come perversione del segno della croce) il segno di riconoscimento e di saluto che gli eretici si scambiavano: la mano destra saliva alla fronte per tergerne via il sudore, scendeva per lisciare la veste all’altezza del ventre, infine saliva alla spalla sinistra e poi a quella destra per spolverare il tessuto. Secondo i leucolatri questi movimenti simboleggiavano l’opera di purificazione: rimozione della sporcizia corporea (sudore sul volto), di quella depositata sul corpo dal mondo (polvere sulle spalle), delle deformazioni prodotte dall’esistenza pur in assenza di un passaggio di materie (le pieghe della veste).
Dal De sectis, invece, apprendiamo che gli eretici adoravano un Cristo Albino, probabilmente modellato su Apocalisse 1, 13-14[4], e si nutrivano prevalentemente di cibi bianchi (latte, mandorle, pollo, albume d’uovo…).
I leucolatri, sempre secondo Didimo, si divisero ben presto in tre gruppi, in aspra polemica uno con l’altro riguardo all’estensione del concetto di immacolatezza:
— i leucolatri in senso stretto, maggioritari, che persistettero nell’adorazione del velo di tessuto grezzo;
— gli acromatici, che in ossequio a un rifiuto integrale della corporeità del mondo pretesero di sbiancare l’aphanes prosopon e furono per questo allontanati dalle comunità. Essi sostenevano che il lavaggio rituale costituiva solo un’approssimazione allo sbiancamento, perché toglieva una sporcizia in nulla diversa dal colore “naturale” (vale a dire corporeo) del tessuto. Alcuni estremisti fra gli acromatici sostennero addirittura che l’aphanes prosopon avrebbe potuto simboleggiare la vera purezza solo dopo che fosse stato bruciato[5];
— i leucisti, che patirono la medesima sorte quando proposero di tingere di bianco il velo: considerati a loro volta eretici e cacciati, si dispersero per le città dell’Asia Minore unendosi alle locali comunità di tintori, specializzandosi, chiaramente, nella tintura di bianco. Il fatto che nel mondo antico i tintori fossero considerati impuri per l’uso che facevano di sostanze come l’urina fece sì che soprattutto sui leucisti si concentrassero gli strali dei polemisti cristiani, che in particolare li accusarono di voler lordare le sacre reliquie: «Certo essi come animali dementi avrebbero urinato anche sul santo mandylion [scil. di Edessa], se questo fosse caduto nelle loro mani; ma più di quegli animali sarebbero stati colpevoli, perché avrebbero conosciuto il valore di esso e del loro atto», scrive Gregorio il Referendario, vissuto attorno alla metà del X secolo e considerato uno dei primi studiosi dei veli santi.
Il riferimento fatto da Gregorio al mandylion non è peregrino o pretestuoso, perché il culto accordato dai leucolatri all’aphanes prosopon volse la loro attenzione all’altro tessuto santo, che di quello pareva archetipo e compimento: il famoso velo conservato a Edessa. A detta degli apologeti che li criticarono, i leucolatri invocavano per il mandylion la purificazione, perché l’immagine del Cristo vi era come imprigionata e la reliquia rappresentava dunque un ostacolo all’opera di salvezza (che aveva l’ascensione al cielo del messia come atto ultimo e conclusivo).
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Purificazione, è ovvio, che però finiva col significare cose ben diverse nel gergo dei leucolatri: dal semplice lavaggio, che avrebbe comunque degradato l’immagine, allo sbiancamento; dalla tintura alla distruzione.
In assenza di iniziative della comunità di Andrapa, i cui anziani erano preoccupati in primo luogo di preservare l’aphanes prosopon e di mantenere rapporti pacifici, per quanto possibile, con le circostanti comunità cristiane, furono singoli gruppi di leucolatri (soprattutto acromatici) a passare all’azione in modo inevitabilmente confuso per sanare quello che ai loro occhi era lo scandalo del mandylion: nello scorcio del VI secolo Edessa fu tormentata dai tentativi sempre fallimentari ma spesso sanguinosi degli eretici di impadronirsi o distruggere il velo. Questo stillicidio di atti criminosi ebbe come unica conseguenza il montare dell’odio nei confronti dei leucolatri, che nel 611 sfociò in una spedizione militare organizzata dallo strategos del thema anatolico: l’esito fu la distruzione di Andrapa, la dispersione della comunità leucolatrica che vi risiedeva e la perdita dell’aphanes prosopon.
Sviluppi successivi
Gli eretici, caduta la loro “capitale”, si sparpagliarono in segreto nelle città dell’Impero bizantino, ricongiungendosi agli estremisti che essi stessi avevano cacciato dal proprio seno nei decenni passati: leucolatri, acromatici, leucisti continuarono a coltivare la loro fede all’interno dei nuclei familiari o di aggregati di poche famiglie, evitando di formare gruppi più ampi[6]. L’eresia si fece dunque, da un lato, invisibile (e parve scomparsa agli occhi dei cristiani ortodossi), dall’altro disseminò le sue idee per tutta l’Asia Minore, dove esse giocarono un ruolo importante nell’acceso dibattito teologico.
H.-C. Puech[7] ipotizza infatti che le correnti iconoclaste che scossero Costantinopoli nell’VIII secolo fossero in realtà una reviviscenza dell’eresia leucolatrica. La genealogia tracciata dallo studioso francese non si ferma però qui: anche il movimento cataro del XII secolo viene da lui ricondotto alla medesima origine (sebbene in questo caso le connessioni individuate siano, a detta dello stesso Puech, molto più deboli).
Riprende il legame fra leucolatria e catarismo e merita di essere citata, anche solo a titolo di curiosità, quasi fosse l’ultima traccia lasciata dall’eresia di cui ci stiamo occupando, la bizzarra teoria formulata dallo studioso Bertrand Frâle[8]. L’autore (che, ricordiamolo, non era né uno storico né uno storico delle religioni, bensì un architetto) adotta un paradigma ermeneutico di tipo cospiratorio e ricostruisce un vasto e secolare complotto ordito dai leucolatri nel bacino del Mediterraneo: dopo la distruzione di Andrapa, gli eretici sarebbero passati alla clandestinità al fine di perseguire i loro scopi di purificazione violenta del mondo, ispirando movimenti non conformisti nemici di ogni compromesso materialistico nell’ambito della religione cristiana.
Secondo Frâle l’iconoclastia, il catarismo e perfino la riforma protestante sarebbero state suscitate e dirette da un’élite occulta per colpire le troppo mondane istituzioni cristiane. Obiettivo principale delle manovre leucolatriche divenne ben presto la Sacra Sindone, percepita come un simbolo del cristianesimo più corrotto[9]: Frâle cita un testo eretico, senza indicare la collocazione della fonte[10], secondo il quale i cristiani che venerano la Sindone «dovrebbero piuttosto essere chiamati adoratori di un cadavere e delle sue immonde secrezioni»[11].
La Chiesa di Roma, secondo Frâle, comprese la natura e la gravità della minaccia: se la reazione al livello speculativo contribuì a sostenere e indirizzare l’evoluzione teologica del cristianesimo (e in particolare del cattolicesimo) e pose le condizioni perché vi si istituisse una coerente dialettica fra spirito e materia, più interessanti furono i provvedimenti presi al fine di contrastare i tentativi compiuti dai leucolatri per distruggere la Sindone: spicca al riguardo l’azione dei Cavalieri del Tempio, che subito dopo la fondazione dell’ordine si infiltrarono nell’Impero Bizantino per proteggere il sacro lino; finché, nel 1204, durante il sacco di Costantinopoli, riuscirono a impadronirsi della reliquia, sì da poterla custodire in modo più efficace, almeno fino alla loro caduta (1307)[12].
Appendice
Riportiamo, in conclusione di questa breve presentazione, un frammento di un testo teologico elaborato in ambito leucolatrico, recentemente scoperto da una spedizione archeologica turca nella tomba di un tintore di bianco, probabilmente leucista, nei pressi di Konya (l’antica Iconio). Il testo, che risale al VI secolo, è stato pubblicato in “Analecta Anatolica”, XXIII, 2010, p. 542 e offre inediti spunti di riflessione agli storici delle eresie cristiane. Lo riprendiamo nella traduzione proposta da M. Pastoureau[13], che lo cita come prova di una riflessione sul colore molto avanzata e del tutto estranea al sapere cromatico della tarda antichità.
«… che sia per la sua indefinitezza, che adombrando i vuoti e le immensità spietate dell’universo ci pugnala alle spalle col pensiero dell’annichilimento quando contempliamo le bianche profondità della Via Lattea? Oppure è che, essendo la bianchezza nella sua essenza non tanto un colore quanto la visibile assenza di colore e, nel contempo, la possibilità di tutti i colori, come un tessuto bianco che tutti li può ricevere, è per queste ragioni che, come narrano i variaghi del nord, in un vasto paesaggio innevato c’è una muta vuotezza, piena di significato, e in quello stesso colore la presenza viva di ogni ente creato e increato, per assenza e per virtualità, dalla quale rifuggiamo? E quando consideriamo quell’altra teoria dei filosofi, secondo cui tutte le tinte terrene – quelle solenni o leggiadre degli arazzi, le dolci sfumature dei cieli e dei boschi al tramonto, i velluti dorati delle farfalle e le gote di farfalla delle fanciulle – tutte queste non sono che scaltre menzogne, non realmente inerenti alle sostanze, bensì soltanto spalmate dall’esterno; cosicché tutta la Natura si dipinge esattamente come la meretrice, le cui seduzioni coprono null’altro che l’ossario di dentro. E quando procediamo ancora più in là e consideriamo che sotto quelle tinte cosmetiche il gran volto del mondo rimane sempre in sé bianco o incolore, e se si mostrasse a noi senza mediazione conferirebbe a ogni oggetto, persino ai gigli e alle rose, la sua inespressiva tintura… quando meditiamo su tutto questo, l’universo paralizzato ci sta davanti come un lebbroso; e come il caparbio viaggiatore che in Scizia si rifiuta di abbassare un velo colorato sugli occhi, così il misero miscredente s’acceca fissando il monumentale sudario bianco che avvolge tutta la prospettiva attorno a lui…».
Note
[1] J.-P. Migne, Patrologia Graeca, 20, 1545.
[2] Cfr. Tertulliano, Apologetico, XVI, 7.
[3] Tertulliano, Apologetico, XVII, 2.
[4] «Uno simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. I capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve».
[5] In un passo di Epifanio si legge che gli acromatici possedevano teli dotati di una singolare proprietà: una volta imbrattati, bastava gettarli nel fuoco perché invece di ardere tornassero bianchi. Evidente il parallelo con le salamandre menzionate nella lettera del Prete Gianni (1165), quelle «specie di vermi» che vivono nel fuoco e per resistervi producono una pellicola come quella dei bachi da seta. Da questa pellicola si fanno degli abiti da donare al Prete, che possono essere lavati solo nel fuoco. La somiglianza del racconto è tale da indurre a ritenere che il passo di Epifanio sia stato interpolato in epoca medioevale.
[6] Del resto la perdita dell’aphanes prosopon aveva tolto al culto ogni profilo pubblico e incoraggiato, anzi, la ricerca della pura essenza nell’esperienza religiosa, stimolando gli approcci più “minimalisti”: per esempio, venerazione di pareti intonacate di bianco oppure di crepe sottili o impercettibili scoloriture o sfogliature sulle stesse pareti, a seconda delle tendenze dominanti nei vari gruppi. In un’interpolazione apocrifa nella Storia ecclesiastica di Evagrio Scolastico (IV, 27, II-VII) si narra che gli acromatici avrebbero considerato la distruzione del sacro telo di Andrapa un segno divino che confermava l’illegittimità di qualsiasi iconografia sacra.
[7] H.-C. Puech, La doctrine des Leucolatres, in “Revue de L’Histoire Des Religions”, 145-II, 1954, pp. 92-105.
[8] B. Frâle, Christ voilé ou violé? Les Chevaliers du Temple et le Saint Suaire (Plon, 1961).
[9] E forse addirittura identificata col mandylion di Edessa, velo sul quale i leucolatri si erano già accaniti, per altro senza frutto. Frâle non prende posizione al riguardo, ma è chiaro che l’estremo interesse degli eretici per la Sindone sarebbe forse più comprensibile laddove i due veli fossero in realtà un’unica reliquia.
[10] Fu per questo accusato di essersi inventato sia la citazione che il documento.
[11] Non sfuggirà che pochi anni prima dell’opera di B. Frâle era stato pubblicato il saggio di R.P. Côme, La suprême abjection de la Passion du Christ (F. Tanazacq, 1955), in cui si rivelava la presenza sul Sacro Lino di macchie organiche «conseguenza della morte per soffocamento» dell’uomo crocifisso. Frâle, comunque, non cita questo testo nella propria opera.
[12] Proprio la centralità assunta nell’ordine dalla Sacra Sindone viene indicata da Frâle come una delle cause della sventura che si abbatté sui Templari: fu facile per loro accusatori spacciare la protezione e la venerazione accordate nel segreto alla reliquia per il culto riservato a un idolo pagano.
[13] M. Pastoureau, Blanc: histoire d’une couleur, Éditions du Seuil, in corso di pubblicazione.