Materiali per una storia dell’Opteopo

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di Andrea Becherini e Giacomo Bencistà

 

Come certi chimici vollero provare l’LSD alluciniere, così il miscredente Spallanzani tentò distillare una gocciòla purissima di fede, e inocularsela. Lo fece perché trovava l’incredulità becera quanto il bigottismo, ma non si scherza impunemente col numinoso…
G. Manganelli

 

Durante la conferenza inaugurale dell’Opificio di Teologia Potenziale (in seguito “Opteopo”), Elia Spallanzani osservò:

«Il primo problema del giovane teologo non è dimostrare l’esistenza di Dio, ma capire cosa dovrebbe essere. Qual è il minimo comune denominatore della divinità?».

Con la consueta lucidità, Spallanzani si era accorto che a dispetto dell’enorme letteratura sul tema, nessuno sapeva bene di che cosa si voleva dimostrare o escludere l’esistenza. L’unico tratto che sembrava accomunare le divinità delle varie tradizioni (tranne certi Dei assai borghesi) era il loro potere di fare cose altrimenti inspiegabili.

«Ne deriva che ci accaniamo inutilmente: più spieghiamo il mondo, più la divinità si rifugia nel remoto, in atti di scarsa visibilità. Molti Dei il progresso ha disoccupato».

L’espressione appare giocosa, ma Spallanzani era fin troppo consapevole della tragicità del momento. Al recedere del numinoso si accompagnava la sterile tendenza all’astrazione della ricerca teologica contemporanea. «Il Dio dei teologi non è il Dio delle genti!», ripeteva continuamente Spallanzani, e spiegava che il primo è solo un’astrazione, un cumulo di superlativi, e che non bisogna mai dimenticare che è solo un modello di Dio, non la realtà. Con crescente enfasi, tenne a sottolineare:

«Non possiamo farci addormentare dai modelli. L’unico approccio ragionevole è prendere un dio alla volta e testarne la duttilità, la resilienza, il coefficiente di conduzione e se possibile anche l’edibilità. Solo questa strada conduce alla vera conoscenza».

Seguirono applausi scroscianti, ma anche critiche feroci. Qualcuno osservò che l’oratore cadeva nel vecchio errore di Anselmo, supponendo senz’altro l’esistenza del nominabile; altri dissero che questa teologia potenziale somigliava talmente a quella comune da non meritare nessuna giustificazione accademica.

La replica di Spallanzani, per quanto sghemba, fu sottile: notò che se le religioni esistenti sono già il frutto di una teologia potenziale, allora a maggior ragione bisogna approfondire la materia per individuare i vincoli che le hanno formate. Fine della prospettiva storica! Indagare il passato per pura forza di ragione. C’erano illustri precedenti.

I più attenti accusarono Spallanzani di essere un vanesio e un pasticcione perché l’Opificio, sulla scia dell’Oulipo, avrebbe dovuto occuparsi di teologia potenziale, ossia della ricerca sulle teologie possibili prodotte sotto condizioni formalmente vincolanti, come del resto lo stesso Spallanzani aveva scritto nel racconto del 1956 intitolato L’Istituto:

«[…] sceglieva regole formali arbitrarie: una teologia priva della “e”, un’altra derivata dai tarocchi […] estraeva a caso argomenti di fede: le loro combinazioni avevano del paradossale e del mostruoso; un Dio uno ma trino, una madre vergine; la ruota infinita delle incarnazioni cum la dottrina della predestinazione; in simili esercizi si sfiniva».

Ebbene, adesso all’improvviso Spallanzani tradiva la premessa e si metteva a parlare solo di sperimentazione, che non c’entrava nulla: non nascondiamo che molti gli diedero la baia e lo invitarono a cambiare acronimo[1].

I più giovani fecero sfoggio di cinismo e notarono che stava solo giocando con le parole e che la divinità, in fondo, non è altro che una deduzione affrettata. Al che il nostro rispose:

«Con le parole facciamo gli Dei e poi ci lamentiamo che non se ne può provare l’esistenza. Noi però non guardiamo più le cose, ma solo le parole con cui chiamiamo le cose. Da ciò la necessità di una teologia sperimentale e positiva».

Proprio a questo scopo aveva fondato l’Opteopo, per sopperire all’incresciosa scarsità di materiale divino. Una sera, immergendo un’ostia in adeguata soluzione zuccherina, Spallanzani era addivenuto persino alla moltiplicazione della particula, e progettava anche di costruire un acceleratore di particule, di cui però parlava solo con frasi oscure, perché gli infedeli non capissero.

Nell’Opificio di Teologia Potenziale si producevano vari tipi di Dei, alcuni erano onnipotenti, altri nullapotenti e questi erano i più elusivi, i più difficili da osservare: simili a neutrini, non interagivano con l’ambiente e si beavano solo della loro sferica perfezione. Pure avevano dei fedeli e anzi ce n’era uno piuttosto grasso, con un sorriso melenso, che riscuoteva un grandissimo successo tra le donne.

Ma la vita all’Opificio non era facile. Non era nemmeno cominciata che già certi gruppi fondamentalisti premevano perché si interrompesse la sperimentazione sugli dei, come pratica feroce e disumana. Inutilmente Spallanzani replicò che non c’era altro mezzo, che gli dei non pativano alcun male e che, nella maggior parte dei casi, nemmeno esistevano: non ci fu verso.

Inoltre il costosissimo acceleratore di particule non dava i risultati sperati perché le divinità, smemoratelle, talvolta ignoravano le loro stesse leggi e superavano allegramente la velocità della luce per andarsi a prendere un caffè alle macchinette, eludendo tutti i test.

Alle critiche e agli attentati si aggiunse la scarsità di fondi: non c’erano più soldi per pagare gli anagrammisti, i trasmutatori, i meccanici del mulino a preghiere. Quando poi tagliarono la corrente il Grande Zero[2] cominciò a scaldarsi e a perdere: miliardi e miliardi di Dei stavano per liberarsi nell’atmosfera, con conseguenze imprevedibili.

Fu allora che il Nostro diede coraggiosamente le dimissioni e passò a nuove iniziative. Sparito il suo principale animatore, il progetto languì per molti anni, finché nel 2007 fu rivitalizzato con l’apertura una pagina internet. Da allora alcuni giovani studiosi hanno continuato a produrre generatori automatici di preghiere[3], lipogrammi teologici, aldilà speculari, agiografie fittizie[4], analisi economiche della fede, dottrine basate su lapsus ed errori del copista[5].

Particolarmente attivo il Dipartimento di Eretica, che si occupa di costruire una storia alternativa delle religioni. Anche in questo caso le basi sono di Spallanzani, che con gli articoli Platone, Plotino e la Malafemmina e L’audace colpo dei soliti Gnostici aveva istituito un inedito parallelo tra speculazione teologica e commedia all’italiana. Vale la pena riportare l’inizio del secondo:

«Nicola Antiochiano, Ebione, Carpocrate e Valentino sbarcano il lunario rivendendo cosmogonie di seconda mano ai turisti di Tiro, finché non incontrano per caso l’infame Don Basilide e col suo aiuto organizzano il colpo del buco ai danni del Pater Innatus. I quattro brigano e ciurmano fino a procurarsi i nomi di tutti e 2555 gli Eoni; nel frattempo Valentino, il bello ma povero della situazione, preferisce sedurre la servetta Sofia e le sottrae le chiavi del pleroma. Subito dopo, mentre i nostri sudano a scassinare la realtà visibile, Valentino cede al rimorso e in una scena memorabile pone al principio di tutto il mare e il silenzio, e restituisce le chiavi alla donna. Grande è la sorpresa dei soliti gnostici quando dopo aver sfondato il primo velo di maya se ne ritrovano di fronte un altro, e poi un altro, per tutti e novecentonovantanove i cieli. Giunti a un passo dalla meta, si rendono conto che l’universo è un mero accidente, una macchia nella purezza del non-essere, e paghi del cammino compiuto si limitano a rubare la pasta e fagioli degli Dei».

Il pezzo fu un grande successo di pubblico, ma la critica era divisa; «mero colore», commentò L’osservatore Romano, aggiungendo che la storia avrebbe fatto giustizia di simili nugae. Più ragionato il commento di Beniamino Placido, che intravedeva nel racconto l’allegoria di un furto al banco dei pegni.

Dopo simili altezze, i primi tentativi degli epigoni di Spallanzani furono infelici, limitandosi a poco più che giochi di parole, privi di reale tensione conoscitiva. Per mera completezza ricordiamo il tentativo di costruire le ramificazioni alternative del protestantesimo, quali la setta dei Quaquaraquaccheri o Gli Avventizi dell’Ultimo Giorno.

Emigrati in America all’inizio del diciannovesimo secolo per sfuggire alla persecuzione mafiosa, i Quaquaraquaccheri rimasero fulminati dalla parabola Salingeriana del laghetto e delle anatre, sulla quaquaraquale continuano a interrogarsi senza costrutto come se fosse un koan.

Gli Avventizi dell’Ultimo Giorno invece credono fermamente nel prossimo rinnovo del contratto con la divinità. Purtroppo la loro speranza viene sempre frustrata ed essi inscenano delle lunghe processioni con canti, bandiere e striscioni inneggianti alla mitica “Assunzione” o, terribile a dirsi, con minacce al Superno e invettive contro le altre fedi (“Cristiani crumiri!”). Per motivi religiosi non lavorano il sabato, e nemmeno gli altri giorni. Setta scarsamente sindacalizzata composta da aspiranti postini, insegnanti precari, bidelli in disarmo e altri sottoproletari.

Grazie al cielo più di recente l’attenzione del Dipartimento di Eretica si è concentrata sulle potenziali eresie mediorientali del primo millennio D.C. La maggiore familiarità della materia, unita a un metodo rigoroso, hanno prodotto un vasto affresco preciso e coerente, da cui a titolo esemplificativo estraiamo i due articoli che seguono, dedicati ai Catabattisti e ai Leucolatri (con una piccola appendice cospiratoria).

 

Note

[1] Il punto è che dopo aver immaginato l’OpTeoPo Spallanzani si rese subito conto della sua inutilità, visto che la teologia reale per lui era già una forma di letteratura potenziale. Però il nome gli piaceva e aveva già ordinato la targa di ottone.

[2] Così si chiamava il frigo che teneva le divinità a -459.67 Fahrenheit.

[3] Ad esempio il generatore di “Credo”, basato sull’omonimo gioco di carte “Credo, the game of clashing dogmas”, pubblicato nel 1993 dalla Chaosium.

[4] Tra le tante, Santa Marina di Bitinia, che volle farsi monaco.

[5] Impossibile non citare Il concilio di Nietzschea, che nel 1885 sancì come articolo di fede la morte di Dio.

 

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