“La comprensione non basta rifiutarla, bisogna anche esserne indegni.”
E.S., Raccontalo alla cenere.
Ogni quattro-cinque anni qualche conoscente benintenzionato ci sollecita a realizzare un’opera. Quando obiettiamo (bestemmiando anche cristo) che abbiamo già scritto migliaia di pagine il conoscente di turno scuote la testa, esasperato e addolorato dalla nostra stupidità: quella non è un’opera, sembra dire, è solo un mucchio di roba alla rinfusa (lui non userebbe un termine così antiquato e libresco, ma il senso è quello). L’opera deve avere un inizio e una fine, strutturarsi in una forma intellegibile: un romanzo, un saggio, una raccolta di racconti, qualcosa che si possa consumare in un tempo definito, no ‘sta specie di eterno blaterare*.
Il conoscente** sembra davvero angustiato, come se informato per vie officiose ma sicure di un nostro imminente decesso temesse lo sparimento nel nulla di tanto artista. Si dice ansioso, smanioso di vedere questa grande opera che riluttiamo a compiere, di portarla alla luce e farla capire al poppolo. A sentire lui, noi avremmo un sacco di apostoli altrettanto ansiosi di portarci alla ribalta, purché ci decidiamo a cacare quest’opera, l’Opera, la Grande Opera che il mondo aspetta e di cui avrebbe persino bisogno.
In effetti il fan sembra deluso e anche indispettito dalla nostra pigrizia e infingardaggine, da questo eterno giocherellare senza costrutto con le nostre feci. Lui sarebbe entusiasta di quest’opera congetturale ma di quello che scriviamo noi si è rotto i coglioni da almeno quindici anni: non sopporta letteralmente più di vedere i nostri frammenti che si accumulano come lo sfrido e una rapida indagine porta a scoprire che non solo non ci legge, ma nasconde addirittura i post, perché non sono mai ciò che si aspetta e che in fondo reputa dovuto e impossibile: l’Opera, il pezzo compiuto, la statua iperrealistica o la piriforme astrazione che sarebbe il nucleo di tutto questo nostro scalpellare e buttare, il positivo dei calchi imperfetti, l’oggetto centrale continuamente eluso e, in definitiva, quello che ha in mente lui ma non noi.
È anche chiaro che questo suo lutto per l’immorale spreco di un nostro presunto talento è anche un modo di compatirci e perciò di disprezzarci: lui ci ha ormai classificato nella categoria dei conoscenti che, al contrario di lui, sprecheranno tutta la vita a suonare il basso in piccoli gruppi dall’instabile formazione che si esibiscono quando va bene nei bar del paese. È sottinteso che lui da questa pagliacciata infantile è uscito, o appendendo il basso o diventando un turnista, e lo spettacolo che offri tu conferma piacevolmente la ragionevolezza della sua scelta.
Ciò non vuol dire che la sua sollecitudine non sia genuina: un altro sè, che concentra i lati positivi e negativi della nostra antica stupidità, è sempre guardato con quel misto di disprezzo e ammirazione che nutriamo per noi stessi, o per un figlio che nonostante la sua palese idiozia riproduce pur sempre la nostra forma. Resta comunque il fatto che quest’ opera non verrà fuori, e anche ciò rientra nel modello comportamentale previsto.
L’importante, quando si trasformano gli altri in specchi, è che restino come sono: specchi magici, che ritengono l’immagine di un tempo, compreso il suo essere sul punto di mutare, e non mai farlo.
Chiusi nelle cantine, specchi viventi ma in loop (una fotografia non farebbe lo stesso effetto, nella sua adulta compiutezza), specchi che non è neanche più necessario guardare perché sai già cosa mostrano. Possiamo dirlo con ragionevole certezza perché anche noi ne abbiamo alcuni.
*”Il problema”, osservò Elia Spallanzani, “è che mi definisco scrittore ma se domani un editore venisse a cercarmi non avrei nulla da dargli: non un romanzo, non una raccolta di racconti: nemmeno qualche articolo sagace. Io ho solo una gran massa di note, bozze, appunti: tutte cose validissime ma è più o meno come se un fornaio ti vendesse la farina”.
**Quando siamo costretti a qualche squallida mansione materiale la nostra mente vaga e (questo tra l’altro è il motivo per cui svolgiamo male la mansione) vaga e spesso comincia a scrivere il ritratto di un conoscente, in quello stile “presentazione del personaggio” che era tanto in voga due secoli fa. Era un giovine così e cola, e suo padre una volta aveva detto etc. Siccome poi è difficile scrivere mentalmente frasi lunghe e fitte di incisi, perché mentre procedi ti dimentichi le parole di prima, il nostro pensiero torna più e più volte sulle stesse porzioni e le modifica leggermente, e poi le modifica ancora, e ancora, come una specie di mulinello che gira all’infinito con piccole increspature. E andando avanti, mentre il ritratto si precisa e, chissà perché, tende sempre ad assumere un po’ la forma di un epitaffio, quelle frasi così penosamente estrutte svaniscono lo stesso dalla memoria. Dopo centinaia e centinaia di esperienze possiamo dire che restano sempre solo l’inizio e la fine, proprio come… ma questo non vorremmo pensarlo.
P.S. Forse questo dipende dal fatto che a volte abbiamo l’assurdo dubbio che i nostri conoscenti, invece di essere felici e onorati della nostra conoscenza, se ne infottano ampiamente di noi e pensino invece ai meschini casi loro. Se fossero davvero persone degne starebbero qui ad aiutarci nella squallida mansione materiale. L’aver carpito la nostra confidenza, approfittando della nostra proverbiale magnanimità, dovrebbe essere punito almeno con la morte.
(da qui)