Il motivo per cui non si scrivono più romanzi veramente belli e significativi è che sono stati già scritti. Intorno agli anni ’30 la produzione di romanzi è diventata così vasta che ha sfruttato e colonizzato anche il futuro. Un paio di decenni dopo lo stesso è accaduto anche per il cinema, solo che il cinema, essendo un’arte meccanica, aveva ancora qualche margine di sviluppo tecnico, mentre la tecnica del libro era già così perfezionata da non consentire chissà che evoluzioni. Spallanzani lo sapeva e sapeva che si poteva solo andare verso l’interattività, però questo avrebbe richiesto un pubblico nuovo, diverso, che apparentemente la scrittura non riusciva a creare, o almeno non ci riusciva in tempi compatibili con la sua non decollante carriera.
Naturalmente l’Elia non era così grossolano da pensare che il libro interattivo fosse il romanzo a bivi: il lettore doveva partecipare alla creazione del testo, non scegliere soltanto che pagina voltare. Per questo bisognava creare strutture apposite e negli anni ’70 erano già disponibili: nel giro di altri pochi anni sarebbero diventate ubiquitarie. Però intuì anche un’altra cosa, e cioè che tra il suo ipergioco letterario e la volgare deformazione della realtà il popolo avrebbe scelto la seconda. Quel che mancava al popolo non erano le conoscenze o i mezzi, e comunque li avrebbe avuti: no, ciò che mancava era il disinteresse. Il popolo avrebbe partecipato al gioco della scrittura non per amore dell’arte ma per portare acqua al suo mulino, quindi ne avrebbe fatto una rotella dello sporco gioco del mondo, che è appunto ciò che è avvenuto.
Come disse negli anni ’70 Elia Spallanzani, “smettete di cercare il grande romanzo nella polvere, il grande romanzo ormai è libero nel mondo, puccioppo“.
Lui, accusato da critici garruli e superficiali di vivere ancora nel paese dei romanzi, si era accorto che come tutte le loro opinioni, che insignorivano col nome di “analisi”, anche questa era semplicemente l’opposto della realtà: il giornalismo era il romanzo, le rubrica della posta dei quotidiani era pura letteratura fantastica, la politica e l’economia erano romanzi, chiunque sapesse tenere la penna in mano contribuiva ogni giorno all’edificazione di un immenso edificio di menzogne che aveva ormai tutti i caratteri del romanzo d’appendice. Invece dei saggi sulla società, scritti da gente che viveva tra le mura muffose di università tenute in vita per clientelismo, il romanzo contemporaneo era nei giornali delle parruchiere, nei proclami delle mille deliranti associazioni di bravi cittadini, così simili in tutto alle associazioni criminali, salvo nell’omessa dichiarazione del fine di delinquere, e persino nella divulgazione scientifica, che si autoproclamava l’avvincente romanzo dell’umanità. Il romanzo d’appendice si andava facendo giorno per giorno, col suo totale disprezzo per la verosimiglianza e l’angosciante, insisitito sottofondo di propaganda: era in fondo un romanzo popolare, nel senso più spaventoso del termine e allora l’Elia capì che bisognava dare un altro modello, un altro stampo in cui l’aggente potesse riversare la sua sudicia pulsione alla menzogna, un vero e proprio crogiuolo in cui le fanfaluche venissero bruciate dal calore dello stile e la lega della palora si separasse dalle scorie dei cazzi propri e capì in una notte tremenda, mentre l’ultimo capitolo dell’infame romanzo del mondo cercava di farsi strada in lui attraverso un articolo partigiano e stupido sulle classifiche editoriali, capì che quel crogiuolo avrebbe dovuto essere lui: sciogliersi nella creta lasciando un risucchievole vuoto, quel vuoto che noi indegnamente riempiamo.
P.S. Da qui.