Anni fa, quando talvolta ancora ci promenavamo signorilmente nel contado, visitammo i resti di un paesucolo già abbandonato da una sessantina d’anni. Le autostrade avevano reso inutile passare di lì e il posto era morto quietamente: la gente si era spostata altrove, avevano costruito case più a valle, la rocca si era coperta di verzure e di licheni.
Qualche giovinotto speranzoso di entrare nell’amministrazione locale, unica attività della zona, si offriva come gratuito cicerone ai pochissimi visitatori: si offriva per modo di dire, perché dovemmo andarlo a prendere a casa. Però poi fu umano e malinconico nel mostrarci i poveri resti. All’ingresso del paese ci indicò una pietra con su sgorbiato un uccelletto e spiegò che il poppolo, avendo già da secoli dimenticato felicemente il latino, aveva frainteso il nome romano bello e sonoro del luogo storpiandolo in quello del booffo animale, e si era fatto quello stemma grottesco di cui andava peraltro fierissimo, tant’è che chi avesse osato cachinnare in pubblico sull’errore avrebbe rimediato mazzate di morte, e anche subito.
Pubblico però non ce n’era: il paese era un deserto di pietra a misura di puffo, le case più recenti dovevano avere 4 o 5 secoli e da un terrazzone, in origine giardino chiuso della rocca, si vedeva intorno per miglia e miglia, gli antichi confini dei fondi ancora segnati da strade di terra battuta e filari di alberi ricoperti dalla maledetta vitalba, che dopo averli soffocati li usava come semplici pali donandogli una fittizia esuberanza di verde e di vita.
La giornata era grigia, il cielo banalmente plumbeo benché fosse aprile. Tutto induceva a una vaga e incomprensibile angoscia, ma al fondo del suo catalogo di disgrazie e recriminazioni contro la modernità il ragazzo covava una speranza: che coi fondi europei quel luogo potesse diventare un albergo diffuso, o meglio ancora un centro di raccolta per migranti.
Dovranno tagliargli le teste per farli entrare in queste case, pensammo ridacchiando internamente come dei mentecatti, e ci tornò in mente l’erroneo volatile, la lingua perduta, e quella che si sarebbe persa. Ci tornò in mente anche una frase, probabilmente di Gadda: “ed era terra di gente e di popolo, vestita di lavoro”. Frase che, notammo subito, non c’entrava niente, perché lì il lavoro era finito cinquant’anni prima e la terra se la stavano già riprendendo le erbacce.
Per la prima volta, dopo tanti anni a parlare di futuro e di libertà, ci colpì nel profondo l’aspetto terrificante di quello che anche noi avevamo fatto, sebbene in piccola misura: ma che si doveva fare, restare come bidelli insieme al ragazzo o sotto quelle pietre mettere una bomba, perché smettessero di ricattarci? Il senso di una perdita immensa si impadronì di noi disordinatamente: ci appoggiammo al muro della terrazza e non solo per la nostra consueta vertigine. Non c’era più tanto bisogno di immaginare il futuro: era lì, davanti a noi, e ci stava da sessant’anni. Pensammo “ora faremo…”. Cosa faremo? Che possiamo fare?
Non sappiamo cosa fare, non l’abbiamo mai saputo e ci abbiamo messo tanto tempo ad accorgercene che era meglio non farlo. Il momento in cui cominci a rimpiangere un passato che nemmeno conosci e in cui probabilmente saresti solo sopravvissuto in maniera esecrabile è anche quello in cui ti accorgi che stai vivendo male, che troppe cose ormai ti stomacano e che in fondo nel coro generale il problema sei tu. Dicemmo al ragazzo, o pensammo di dire, “nemmeno Giesucristo può far sì che ciò che è stato non sia”, e ridiscendemmo le stradine di pietra fino al cancello e al beffardo stemma: niente cambia più in fretta di un nome ma secondo una regola, per quanto idiota, che è sempre un senso in confronto al nulla. Non lo pensammo allora e non lo dicemmo ma è così.
P.S. Il passo successivo, e quello finale.
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