Per molti anni abbiamo pensato che l’idea di patria esistesse a stento, e che la stessa parola “patria” fosse usata solo nella cattiva retorica oppure come bersaglio fittizio di critiche strumentali, perché con una parola vuota si possono fare solo discorsi vuoti.
Poi ci siamo accorti che forse per noi questa parola significa così poco perché il suo contenuto ideale invece lo troviamo nella lingua: sappiamo un po’ di francese e di inglese ma l’italiano è l’unica lingua che conosciamo abbastanza da dare struttura al nostro modo di pensare. Costituisce per noi l’elemento comune più forte, l’unico che ci lega in qualche modo a una grande quantità di persone e che contiene anche la storia della nostra cultura e anzi la sua stessa sostanza. Per noi cambiare lingua sarebbe traumatico come per altri lo sarebbe dover abbandonare la propria casa. Questo spiega anche il nostro conservatorismo linguistico, il fastidio che proviamo di fronte ai neologismi, ai prestiti da altre lingue, alle sgrammaticature inconsapevoli e all’angosciosa bruttezza del linguaggio giornalistico.
Ovviamente sappiamo che le lingue cambiano ma il legame con la nostra è così forte che non vorremmo: allo stesso modo il “patriota” ingenuo è legato emotivamente a qualcosa che forse esisteva una volta, se è mai esistita, e notata la similitudine il suo atteggiamento sembra molto meno patetico e ingenuo di prima. Noi insomma non siamo capaci di sentirci parte di una comunità astratta o di unsimbolo così forte ma anche così semplice come un’immagine o una serie di colori, e non siamo capaci di sentirci orgogliosi o fortunati perché siamo nati in un posto o in un altro: tuttavia sentiamo di essere inestricabilmente legati a questa lingua, nel bene e nel male. Anche se razionalmente non ha senso, per noi è l’unica veramente bella, VERAMENDE VERA. Quindi non ci viene più tanto di sfottere quelli che stendono le bandiere: ci viene solo di dirgli che dietro c’è una cosa molto più grande e antica e potente, di cui la bandiera è solo un segno.
(da qui)
Vi riferite alla “forma di vita”?
No, al fatto che I confini del mio linguaggio sono i confini del mio mondo (quindi la mia lingua è la mia terra).