D’altro canto i compagni bisogna capirli, e apprezzarli. Hanno subito tante ingiustizie. Negli anni ’70, quando il partito era forte e tanta gente lavorava, i compagni si accorsero di botto che il popolo, nonostante avesse risolto parecchi problemi materiali, restava insistentemente mafioso e fascista. C’era da impazzire. Ma come? Avete avuto la macchina, avete avuto il frigo, avete avuto le ferie e tutto grazie a noi, alla nostra lotta! E ancora votate per quei porci? Non c’era niente da fare, evidentemente si trattava di un problema di “cultura”: ossia, detto in un altro modo, il popolo non capiva qual era il suo bene. Da ciò un sempre maggiore investimento delle energie compagnesche nei settori dell’istruzione e della comunicazione, che detto per inciso avevano anche orari comodi.
Avevano sottovalutato, i compagni, due cose: la prima, che il popolo non stava poi benissimo (loro, essendosi sistemati, tendevano a pensare che si fossero sistemati anche gli altri), e la seconda che non c’era limite ai bisogni, e che questo non era tanto un problema culturale ma industriale. Era possibile, anzi era necessario accrescere i bisogni attraverso la comunicazione, ma era praticamente impossibile fare l’inverso, tanto più che loro per primi non avevano nessuna intenzione di ridurre i propri.
Naturalmente tra i compagni ci fu anche chi capì: non erano proprio andati tutti a scuola inutilmente: però capire suonava disfattismo, faceva quasi pensare che non ci fosse speranza, e allora era meglio andare avanti così, continuare con la cultura, più cultura, più giornali, libri, cattedre, più corsi e lezioni, prediche e segni, soprattutto un sacco di segni, simboli, col popolo ci vogliono. Prima o poi avrebbe funzionato, e comunque gli orari restavano comodi, le pensioni vicine, l’avvenire, tutto sommato, radioso.
P.S. Da qui.