E questa sarebbe almeno una fine

Nel film “Delitto al ristorante cinese” del 1981 il commissario Giraldi si costruisce una villetta abusiva con l’aiuto dei colleghi e anche di un giudice. Tutti sbeffeggiano il vigile in bicicletta che cercava di fermare l’abuso. Costui è gratificato da un doppiaggio dialettale un po’ diverso dal solito, più burino dell’ordinario romanesco. Si sottolinea così che il vigile è un cafone, uno venuto dalla campagna, che quindi non può capire quella facilità/felicità del vivere e del fungere tipica della capitale. Il suo arrancare in bicicletta sotto il sole rappresenta la scarsità di mezzi impiegati per un controllo che nessuno vuole davvero fare, il sabotaggio sistematico di quella legge “lambande, furminande” che lo stato declama a puro scarico di coscienza.
Quarant’anni dopo la scena risulta avvilente: disperante.

Come facevamo a riderne quando eravamo ragazzini? All’epoca in realtà non sapevamo nemmeno cosa fosse un illecito edilizio: il vigile, ridicolo, stava solo cercando di impedire al commissario di farsi una casa (non era suo “diritto” farsi una casa?) e questo sembrava un sopruso. A quei tempi per noi gli unici reati concepibili erano il furto e l’omicidio, i reati diciamo elementari, universali, e così la dovevano pensare anche i moltissimi adulti che andavano al cinema a vedere questi film e ridevano di gusto, totalmente dalla parte del commissario (che “almeno no rubba”). Da ragazzini quindi eravamo in sintonia con la nazione ed è un peccato che non potessimo ancora votare, perché avremmo avuto la soddisfazione, almeno per una volta, di far parte della maggioranza.

La massa orrenda, con la sua mentalità da seienne, era tutta attorno a noi ma non la vedevamo. Col tempo l’unico grande cambiamento è che l’abbiamo vista, anzi è venuta a inseguirci su internet, dove da adolescenti ci eravamo andati a nascondere per chissà quale istinto di conservazione. Siamo riusciti per molti anni ad illuderci che il mondo fosse quello della vecchia rete, coi suoi maniaci, coi suoi film strani, la musica strana, le opinioni capziose e astratte, ma un po’ per volta il mondo reale è entrato anche lui nella rete e ci ha circondato: adesso non possiamo più fingere di non vedere, i fan del commissario compitano a stento le loro sgrammaticate opinioni da bambini del vicolo e ricevono vasti consensi, si raggruppano a milioni per fischiare e ridacchiare delle stesse identiche cose di cui i loro genitori, seienni mentali, ridacchiavano quarant’anni fa.

Il nostro malessere dipende appunto dal fatto che siamo rimasti per troppi anni dietro lo scudo della rete. Avessimo visto la realtà a vent’anni ora saremmo corrotti o già rassegnati, e questa sarebbe almeno una fine.
Contrariamente a ciò che si crede, è molto più facile rassegnarsi a venticinque anni che a quaranta, e questo vale per qualsiasi perdita: di un amico, di un amore, di una speranza.

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