L’espressione “punto di non ritorno” ha subito un significativo slittamento. Oggi viene usata esclusivamente per dire “il punto oltre il quale diventa impossibile rimediare”, ma in origine aveva un senso un po’ diverso: era il punto oltre il quale è più facile continuare ad andare avanti che tornare indietro, come spiega bene Michael Douglas nel molto sottovalutato “Un giorno di ordinaria follia”. Tuttora i vocabolari lo definiscono come “il punto oltre il quale CONVIENE continuare a fare ciò che stavi già facendo perché tornare indietro sarebbe più pericoloso o costoso”. Perciò quando la gente dice “sul clima siamo a un punto di non ritorno” effettivamente sta sostenendo il contrario di ciò che intende. Il problema è che nella neolingua spappolata tutte le espressioni cominciano subdolamente a significare sia una cosa che il suo contrario, e quando ciò avviene siamo davvero al punto di non ritorno.
P.S. quando si parla di linguaggio, una delle osservazioni più comuni e più inani è “ma la lingua cambia!”. Anche le persone che propugnano questa visione puramente meccanica tendono però ad innervosirsi quando cambia in un modo che non gli aggrada. Ad esempio, prendiamo la parola “olocausto”: in origine l’olocausto era una forma di sacrificio che prevedeva il completo incenerimento della vittima. E’ solo dalla seconda guerra mondiale in poi che il termine viene usato per indicare le atrocità dei nazisti.
L’uso era diventato così generale che nessun naturalista della lingua avrebbe dovuto avere nulla in contrario: se l’aggente dice olocausto per parlare dei nazisti, olocausto significa quello e non altro, perché le parole cambiano. E invece qualcuno si è innervosito, perché sotto l’uso dell’agente c’era pur sempre latente il senso antico del termine, e suonava orrendo che lo sterminio di milioni di persone venisse indicato con una parola che non ha un significato negativo, anzi indica un’offerta a Dio. E che il rilievo non fosse proprio del tutto peregrino risulta anche da una piccola, curiosa circostanza: dopo i processi, alcuni nazisti azzardarono che l’olocausto avesse avuto una sorta di funzione provvidenziale, perché aveva consentito la riunione degli ebrei nello stato di Israele.
Ovviamente si trattava solo di una menzogna detta a se stessi per rendere in qualche modo meno insopportabile il ricordo. Difficilmente quegli uomini potevano credere davvero una cosa del genere, però la parola era lì. In quella parola c’era qualcosa che consentiva alcune inferenze. E infatti c’è stata una lotta per passare al termine shoah, che significa “catastrofe”, e forse è ancora più adatta la parola rom, “divoramento”. Il fatto è che non solo le parole ovviamente cambiano, ma ci cambiano.
Per quanto le nostre parole siano prive di qualsiasi potere e non spostino nemmeno un atomo del mondo (le nostre parole, queste parole), le parole in generale cambiano il mondo: non per noi, per altri: sconosciuti e lontanissimi altri. Perciò il loro mutare, come quello di tutte le forme viventi, non è un fatto positivo in se, desiderabile in se, tollerabile in se: è solo un fatto, come le tasse, la primavera o la morte: un fatto a favore del quale o contro il quale dobbiamo reagire ogni momento, con le forze che abbiamo.