Non è solo un’impressione indotta dal fatalismo dei vecchi: realmente tutta la vita si prefigura in pochi, precoci episodi, ed è solo per sciocca vanità che ce ne accorgiamo sempre troppo tardi.
Nel nostro caso il presagio risale all’occupazione del liceo. Non ci ricordiamo nemmeno perché fu fatta: era praticamente una tradizione, l’occupazione si faceva ogni anno. Già questo avrebbe indotto persone meno stupide a dubitare della faccenda, ma noi eravamo appena usciti dal ginnasio e quindi facendo ormai parte dei grandi, occupare era un nostro diritto. Che poi, in verità, per questioni pratiche la nostra era un’occupazione parziale: la sera tornavamo a dormire a casa, come il 98% degli occupanti. Solo un piccolo gruppo restava anche di notte e oggi ci rendiamo conto che quegli irriducibili contestatori erano i figli dei professionisti e dei burocrati che abitavano vicino alla scuola, i più borghesi tra i già borghesissimi clienti del liceo.
Ma noi eravamo giovani ed entusiasti e privi di problemi pratici, per cui questioni come il ceto non ci sfioravano, e siccome avevamo i voti alti fummo assegnati al gruppo che doveva fare “il giornalino”. Incidentalmente, chi decideva queste assegnazioni? Non ce lo ricordiamo, ma abbiamo il sospetto che molte indicazioni venissero direttamente dagli insegnanti: perché ulteriore e scontata peculiarità di quasi tutte le rivolte studentesche di quel tipo è che molti insegnanti collaboravano con gli occupanti, sia banalmente per non lavorare, sia perché lo spettacolo doveva ricordargli un po’ la loro giovinezza, quando avevano giocato anche loro a fare i ribelli nell’attesa di prendere il posto.
Fatto sta che nel gruppo del giornalino c’era una ragazza carina (e ovviamente borghesissima, compagnissima) che faceva anche teatro, e noi scambiammo subito la sua generica affabilità per un’attenzione personale, per cui fummo perduti: restammo nel gruppo fino alla fine, benché si fosse capito quasi subito che non serviva a niente e che le cose più interessanti accadevano altrove.
Ricordiamo ben poco, solo lunghe e spappolate e inconcludenti discussioni, anche perché gli “intellettuali” non avevano la minima idea di come fare questo giornalino: nessuno di loro sapeva usare un computer (d’altronde era un liceo classico!), che comunque a scuola non c’era, e in pratica gli unici capaci di stampare qualcosa eravamo noi, a casa. E così finì che questo giornaletto (un foglio al giorno) lo facevamo tutto noi, riempiendolo di giuochi di parole, citazioni colte e notizie palesemente false: come si vede, era tutto già definito. Ed era anche già stabilito che nessuno dovesse leggere le tre o quattro copie che riuscivamo a stampare, e che la ragazza tanto carina, con la sua bella bocca piena di nomi forestieri che poi in definitiva sapeva solo quelli, una volta costretta a leggere quel foglio del cazzo ci guardò con cortese incomprensione: sorrise perché non capiva lo scherzo, e anzi non capiva nemmeno che era uno scherzo.
E poi un giorno venne anche una giornalista, e quell’incontro sarebbe stato ancora più rivelatore, se avessimo prestato più attenzione a quel che diceva lei invece di pensare solo a ciò che volevamo dire noi. Tuttavia qualcosa ricevemmo, qualcosa di importante, che non riconoscemmo. Abbiamo capito in seguito e potremmo anche dirlo, ma un po’ si sarà già capito, e poi in fondo a chi interessa.
Vorrei sapere, ma rispetto il Vostro riserbo.
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