In un libro di Oliviero Succhio viene descritta una tremenda malattia degenerativa tipica di un’isoletta del pacifico e della sua popolazione forestiera. Simile alla Sla, ma anche all’Alzheimer, ‘sta malattia provocava tremori e paralisi progressiva, a volte misericordiosa demenza ma più spesso no, ed era incurabile, e sempre letale (infine, per paralisi del sistema respiratorio). Colpiva quasi solo persone anziane e andava sparendo misteriosamente così come era comparsa.
La popolazione interessata era ben consapevole degli effetti della malattia e del suo decorso. Quelle persone piuttosto primitive e forestiere davano per scontata la loro sorte e Oliviero si sorprendeva del fatto che i malati e i loro familiari trovassero naturale anche l’idea che avrebbero trascorso gli ultimi anni rispettivamente nella totale e spesso lucida impotenza e nella continua cura. Anche molti dei suoi pazienti americani erano in condizioni simili ma finivano negli ospedali, in modo da non dare troppo fastidio, da non apparire nemmeno alla vista con la loro angosciante malattia.
Di fronte a un malato, un uomo grande e grosso e imponente che ormai non riusciva neanche più ad alzarsi in piedi, Oliviero essendo americano si chiedeva se non si sentisse umiliato dal fatto di dover ricorrere per ogni cosa alle cure dei familiari. Ma si accorgeva che non era così, perché in fondo quell’uomo aveva a sua volta compiuto lo stesso pietoso dovere per altri, e così avrebbero fatto i suoi figli per lui.
Il Succhio, ripetiamo, si accorgeva con un certo stupore che quell’uomo non si sentiva di peso, e che i familiari non lo consideravano un peso. Per lui era strano, forse perché per gli occidentali l’idea contemporanea di dignità equivale sostanzialmente all’idea di solitudine, a un’autonomia che è una mancanza di obblighi nei confronti degli altri e quindi anche di obblighi altrui nei tuoi confronti. La stessa parola “obblighi”, che fa venire in mente un contratto, è più moderna rispetto agli antichi “doveri”, termine che in alcune zone dell’Italia si usa ancora per indicare quel che si deve fare in nome del legame sociale (ad es. ricambiare una visita funebre è uno dei “doveri”, non un obbligo).
La differenza principale è che la violazione del dovere non è una specie di inadempimento, un venir meno all’accordo fatto con qualcuno, ma è il tradimento dell’intera comunità, l’allontanarsi dal gruppo.
Quel gruppo che poi è una delle “comunità intermedie” di cui parla anche la nostra costituzione, e il 98% dei problemi deriva proprio dal rapporto tra l’individuo e il gruppo intermedio: divorzio, aborto, eutanasia, immigrati, sussidiarietà, tutto gira intorno a questo. Non è che i gruppi intermedi si siano tutti indeboliti, anzi alcuni sono pervenuti alla dignità di vere e proprie camorre, ma la loro forza tende a nascondersi, perché è teoricamente incompatibile con la proclamata tutela assoluta dell’individuo. Da ciò la disgustosa sensazione di un’ipocrisia universale, inguaribile, disperante.
P.s.
Anche Elia Spallanzani, come Oliviero Succhio, aveva cercato di arricchirsi sfruttando biecamente le descrizioni di bubbolati nel cerviello. Ma non tutti sanno che Oliviero Succhio, l’uomo che scambiò i suoi pazienti per merce da vendere, era a sua volta affetto da un deficit percettivo chiamato prosopagnosia, ossia difficoltà di riconoscere i volti.
Questo provocò due notevoli effetti: in primo luogo, Oliviero lavorò a lungo sul paziente X, che era in effetti lui stesso riflesso nello specchio e che giudicava affetto da una curiosa mania imitativa. Ogni giorno lui e il signor X si incontravano nell’atrio di casa e Oliviero alla fine fu costretto a chiedergli di contribuire all’affitto.
In secondo luogo, la prosopagnosia quasi escludeva la pareidolia: detto per le persone ignoranti, Oliviero non vedeva volti nelle nuvole, né sulla luna o sulle rocce, e ciò lo fece sprofondare in un disdicevole ateismo. Alcuni suoi conoscenti sostenevano però che in compenso Oliviero vedesse dappertutto simboli del tallero, oppure l’omino della michelin. Con quali effetti sulla sua moralità si può facilmente immaginare.
Pingback: Cinque sermoni sul culto dei posteri | Fondazione Elia Spallanzani