Il 31 luglio è stato l’anniversario della nascita di Primo Levi, che è uno dei pochi scrittori italiani di fantascienza che vale la pena leggere. Ovviamente non lo fa nessuno perché per tutti Levi è lo scrittore del campo di concentramento, e su queste cose non si scherza. La fama come peggior forma di incomprensione: destino scontato, che Elia Spallanzani pensò di poter schivare solo restando incacato.
La Fondazione ha scritto varie volte del Levi non concentrazionario e potremmo anche linkare i post, ma comunque nessuno li leggerebbe lo stesso. Allora ricopiamo solo una frase dal suo racconto “La decodificazione”, che mostra il punto fondamentale del complottismo:
“[il quindicenne Piero] è piuttosto un lamentoso, uno di quelli che tendono a vedere il mondo come una vasta rete di cospirazioni al loro danno, e se stessi al centro del mondo, esposti a tutti i soprusi. Da questa tendenza, che è debilitante, è difficile guarire, perché i soprusi esistono.”
P.S.
Tutti quelli che l’hanno conosciuto sanno che Elia Spallanzani era un uomo faceto: “come quel celebre buffone, sono uomo di infinito scherzo”, banfava lui stesso di se, e scherzando scherzando arrivava volentieri a dire cose orrende, e a bestemmiare. Forse il suo racconto più drammatico è “La selezione”, che dalle lettere a Zia Luisella risulta legato proprio alla sorte di Levi. Il breve testo, più una sorta di prosa lirica che di racconto, è l’ultima pagina del diario di un sopravvissuto ai campi (sebbene sia scritto in terza persona): semplicemente, dopo quarant’anni l’uomo continua a vedere il gesto della selezione: in ogni momento, ad ogni incrocio, dietro ogni scelta quotidiana lui vede la mano che smista a destra i salvati e a sinistra i condannati. “Aveva l’espressione”, chiude la storia, “di un uomo che si è cacato irrimediabilmente il cazzo”.
Eppure la figura di Levi ormai è così mitologica che molti rifiutano l’idea che si sia ucciso. Prove definitive, si dice, non ce ne sono, ma la nostra sensazione nettissima è che Spallanzani avesse visto giusto.