Per perdere con grazia ci vuole fede

Nell’Eneide a un certo punto organizzano dei giochi funebri: c’è la corsa, poi una gara tra barche, poi il pugilato. A quei tempi non era come oggi, che gli atleti sono tutti sbeerri e i pugili usano i guantoni: allora usavano i cesti, delle strisce di cuoio rinforzato, per darsele veramente bene. Ma nessuno vuole sfidare il campione di pugilato, finché non riescono a convincere un “vecchio” (magari aveva trent’anni), che a sorpresa riempie il giovane di mazzate fino a fargli sputare sangue e denti. Il giovane campione ancora si lancia al contrattacco ma Enea lo ferma e dice “che fai, sei pazzo? Non vedi che è posseduto da un Dio?”. Quindi il vecchio vince e in una scena alla Ken il guerriero con un cazzotto in testa uccide il toro promesso in premio.

La cosa bella (veramente bella, veramente santa) è quel farsene una ragione: non perdi perché vali di meno, ma l’altro è posseduto da un dio e quindi non c’è niente da fare, anzi: insistere sarebbe blasfemo. Gli dei (il destino, il caso, etc) servono innanzitutto a rassicurarci che nessuno è meglio di noi. Macchinari immensi e incomprensibili determinano la vittoria o la sconfitta ma nessuno è oggettivamente meglio di noi e quindi possiamo tollerare la vittoria altrui senza odiare: l’ha voluto dio.

Questa è la vera radice dello spirito olimpico, dell’accettare con grazia l’altrui vittoria (perché l’altro, appunto, è toccato dalla grazia), mentre nessuno ha mai creduto alla storia che l’importante è partecipare. Questa è una perversione moderna, di fatto una spudorata menzogna. L’importante è vincere, ma la vittoria non è completamente nelle tue mani. Quindi agli atleti che non vogliono farsi odiare noi consigliamo di non ringraziare solamente l’allenatore o la mamma, di non dire che questo è il frutto di tanti sacrifici: piuttosto si inginocchino a ringraziare la Potenza che li ha favoriti, che come l’aria è invulnerabile agli sputi e alle ironie degli umani.

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