Per Natale ci hanno regalato il librone della Fanucci con le opere complete di Lovecraft, che in effetti avevamo già perché quando H.P.L. non era ancora diventato famoso comprammo i 4 volumi della Mondadori (che trent’anni dopo sono stati riuniti in questo qui).
Superato l’impatto con la copertina, ridicola e orrenda, assolutamente inadatta, constatiamo che il librone abbandona il criterio cronologico dei 4 volumi e divide i racconti in gruppi tematici, il che forse sarebbe anche comprensibile se non fosse che poi tradisce il criterio e mette in un gruppo a parte i racconti lunghi e li chiama “romanzi”, presumibilmente perché il popolo li preferisce ai racconti: con un “romanzo” gli sembra di aver speso meglio i suoi soldi. A questo punto non sappiamo ancora se le traduzioni siano diverse da quelle dell’edizione Mondadori, perché il volumone, per le sue dimensioni e l’esiguità dei margini, è impossibile da leggere a letto. Nel complesso, comunque, ci pare che la versione in 4 libri fosse nettamente meglio, ma siccome non li troviamo più, nel disperante caos che è diventato la nostra vita, il regalo è comunque utile. Seguono alcune note sparse:
– Nell’introduzione Pagetti (che azzarda anche un imbarazzante paragone tra Lovecraft e Dante) menziona l’Orrore di Dunwich come orrenda parodia della natività: avevamo già letto qualcosa di simile nel libretto di due vecchie conoscenze, Becherini e Bencistà, che a loro volta citavano non ricordiamo più chi. I due autori però si spingevano molto oltre, finendo quasi per suggerire che Grisdo fosse una parodia di Marxe.
– I racconti di Lovecraft raccolti dalla Fanucci sono senza note, diversamente dalla vecchia edizione Mondadori, e questo in certi casi produce uno strano effetto. Ad esempio, l’edificante racconto “Old Bugs” appare del tutto anomalo per HPL e si spiega solo sapendo che nacque come monito semi serio rivolto ad un amico. Anche “Herbert West, rianimatore” prende un altro sapore, perché il lettore non viene avvisato che fu inizialmente pubblicato in sei puntate. Potrebbe desumerlo facilmente dal fatto che ogni capitolo riepiloga i precedenti, ma conoscendo i lettori di oggi non è affatto sicuro che arrivino alla conclusione. Anzi, può darsi che una parte della fortuna di Herbert West derivi proprio dalla sua ripetitività.
I sei episodi in se sono buoni anche così, brevi ma pieni di inventiva e anche di un perverso umorismo, eppure qualcosa ci dice che nella maggior parte dei casi i riepiloghi non vengono colti come residui di una precedente divisione. Per dire, Herbert West è uno dei pochi personaggi di Lovecraft ad avere una descrizione fisica che viene ricordata dai fan, per la banale ragione che questa descrizione è ripetuta sei volte, in termini quasi identici. Persino il lettore moderno, con la sua capacità di concentrazione pari a quella di una mosca, non può avere dubbi su quali fossero gli scopi e i mezzi del rianimatore, perché vengono ripetuti sei volte. In effetti Herbert West con le sue continue ricapitolazioni è il pezzo di Lovecraft che forse più si avvicina ai dettami delle scuole di scrittura creativa: poche idee, possibilmente una sola, e un continuo martellamento sul lettore finché non gli esce dalle orecchie, altrimenti lo perdiamo.
– Il racconto “La figura nella casa” contiene uno dei suoi famigerati tentativi di dialetto. Il protagonista incontra un vecchio che si esprime in modo arcaico e campagnolo e a questo punto i traduttori seguono due strade: quello dell’edizione Fanucci non fa una piega e traduce in italiano standard, benché il narratore continui a dire che il vecchio parla strano: pigrizia odiosa, che diventa comprensibile solo guardando quel che ha fatto il traduttore dell’edizione Mondadori: costui ricorre a un dialetto immaginario composto in pratica da abbreviazioni e sgrammaticature, con una vaga traccia di romanesco. L’arcano e orrendo bifolco del 18simo secolo che parla romanesco torna anche in altri racconti di HPL, tipo “La Maschera di Innsmouth“. E dire che Lovecraft al suo intraducibile dialetto ci teneva. Scrupoloso come al solito, non si inventava niente: prendeva lessico e grammatica da vecchi libri e componeva faticosamente le sue arcaiche sparate, di cui era soddisfattissimo, anche se suonavano buffe e innaturali pure agli americani. Del resto viene da chiedersi cosa farebbe uno scrittore italiano col dialetto di una provincia del Molise di trecento anni fa. Uno dei pochi esempi che ci vengono in mente è Striano che nel “Resto di niente” si inventa il gergo dei camorristi ai tempi del re Ferdinando, con esiti inevitabilmente grotteschi. Resta il fatto che ad oggi non esiste una traduzione accettabile del dialetto lovecraftiano e questo sì sarebbe un buon argomento per una tesi di laurea veramente importante, veramente bella.
– Abbiamo riletto “Orrore a Red Hook“, che è ritenuto la prova più evidente del razzismo di Lovecraft e che Houellebecq considera addirittura il momento in cui HPL passa dal gotico ad una nuova forma di orrore sorta proprio dallo spettacolo della metropoli multietnica. Tuttavia le interpretazioni dell’opera basate sulla presunta psicologia dell’autore sono sempre in fondo puri esercizi di arbitrio.
È noto dalle lettere che HPL detestava New York, dove si era trasferito con la moglie e in cui resistette pochi mesi, anche perché quella pretendeva che si trovasse un lavoro. È altrettanto noto che Lovecraft non vedeva di buon occhio i forestieri, e infatti nel racconto gli immigrati clandestini sono degli adoratori del demonio, né più né meno, che rapiscono bambini “dagli occhi azzurri” e commettono, si direbbe “per natura”, altre spiacevolezze. Ma colpisce anche il fatto che l’arcicattivo della storia sia un bianco: un vecchio di origini olandesi appassionato di stregoneria. Questa, a ben vedere, non è tanto un’ambiguità quanto un’ulteriore prova che HPL considerava i bianchi superiori, anche nel male. Gli immigrati sono l’humus spontaneamente perverso, ma ci vuole un bianco istruito per fare le cose veramente organizzate, veramente brutte.
A questo punto è curioso leggere il soggetto che Valerio Evangelisti ricavò dal racconto: manco a dirlo, qui gli immigrati sono solo vittime sfruttate sessualmente e depredate degli organi. I cattivoni sono unicamente i bianchi e anzi c’è proprio un’equivalenza tra potere e perversione: i politici, i mafiosi e i poliziotti formano una cricca dedita ai sacrifici umani e roba del genere.
Naturalmente Evangelisti doveva essere convinto di fare un’opera di giustizia. In fondo si sa che nero = sfruttato e potente = vampiro, quindi il soggetto deve essergli uscito così spontaneamente. Già che c’era ovviamente ha inserito anche qualche personaggio femminile, perché una storia senza donne (senza dialoghi, senza figure etc) nessuno la capirebbe.
Ma alla fin fine Evangelisti, come praticamente tutti i progressisti, non è altro che un razzista che si ignora, e proseguendo inconsciamente nella stessa linea di Lovecraft finisce per dire che solo i bianchi possono essere davvero pessimi. Alle altre etnie questa prerogativa è tolta, e anzi gli viene tolta in maniera ancora più radicale di come aveva fatto Lovecraft, che almeno un po’ di caotica perversione gliela concedeva.
P.S. Il cuore del racconto di HPL, comunque, è una sarabanda infernale sulle rive di un mare nero: una scena onirica e incomprensibile, che viene direttamente da un incubo. Naturalmente questo brandello di oscurità si perde del tutto nel trattamento progressista: portasse almeno qualcosa in cambio!
– I racconti di HPL scritti “in collaborazione” con Hazel Heald hanno tutti in comune i pupazzi (almeno, tutti quelli noti). Statue che non sono statue, o che non lo erano. Anche nella “Morte alata” c’è uno spirito chiuso in un corpo non suo. Sebbene sia un tema già presente in HPL (es. “La cosa sulla soglia“), o comunque un tema comune nel gotico, qualcosa ci dice che il nucleo di queste storie viene da una reale ossessione di quella donna, sebbene in alcune lettere Lovecraft a volte sostenga di aver scritto la maggior parte del testo. I capiscioni della lovecrafteria, che grazie all’enorme quantità di lettere di HPL tendono spesso al pettegolezzo, sostengono che forse Hazel “bel figotto” Heald nutriva un interesse per il Nostro (cioè, nel contesto, per HPL, non per Elia Spallanzani). Il rilievo in effetti è del tutto insignificante e ormai rischia anche di passare per misogino, quindi fate conto che non l’abbiamo scritto.
– “L’Ombra calata dal tempo” è uno delle nostre storie preferite e secondo noi contiene anche un elemento che permette di unificare il “mondo” in cui avvengono tutte le storie di HPL, però rileggendo il racconto la persona signorile deve per forza notare uno strano particolare: il protagonista sostiene che i giganteschi palazzi della grande razza hanno un pavimento fatto di lastroni ottagonali. Ebbene, non è possibile tassellare un piano con gli ottagoni. Coi quadrati, con gli esagoni, ma non cogli ottagoni. Non esiste modo al mondo! L’ovvia spiegazione è un errore, un po’ come quello di Borges con gli scaffali della Biblioteca di Babele, ma oltre che ovvia è anche una spiegazione assai poco interessante Il punto è un altro: il pavimento d’ottagoni è impossibile in questo mondo, ma non in ogni mondo. Per esempio, è possibilissimo in un universo iperbolico. Lì si può costruire un pavimento fatto solo da ottagoni.
Il problema, semmai (o per meglio dire, “la rivelazione finale che nei racconti di HPL costituisce prevedibilmente il culmine dell’orrore”), è che il mondo in cui il protagonista vede quegli ottagoni E’ IL NOSTRO!11!!!.
– Il racconto “Il boia elettrico“, scritto in collaborazione con Adolphe De Castro, non è granché: però contiene almeno un passaggio memorabile, che va diffuso.
“Semplice riflessione logica, caro signore. Ho studiato le esigenze dei nostri tempi ed ho agito di conseguenza.
Avrebbero potuto farlo anche altri, se avessero avuto una mente possente come la mia… cioè capace di concentrazione continuata. Io avevo la convinzione… la forza di volontà… ecco tutto.
Ho capito, come nessuno ha ancora compreso, che è assolutamente necessario eliminare tutti gli abitanti della Terra prima che ritorni Quetzalcoatl, e ho capito che bisogna farlo con eleganza.”
– “Tra le spire di medusa“, altra collaborazione, è piuttosto lungo e piuttosto fiacco, e si nota anche che il tema degli “antichi” ci è stato calato sopra un po’ così, visto che la storia potrebbe farne tranquillamente a meno. Ma questo è un altro dei racconti famigerati per via del contenuto razzista, tanto che se ne parla poco e quasi con orrore, mentre semmai sarebbe giusto non parlarne per la sua modesta qualità. Già negli anni ’50 il finale era stato “rimodellato” per non usare certi termini, ma il buffo è che come sempre la lunga circonlocuzione risulta molto più offensiva della temutissima palora nerga.

– Abbiamo riletto “Alle montagne della follia” e “Il caso di Charles Dexter Ward“, due tra i più noti racconti lunghi di Lovecraft, oggi (vista la già menzionata preferenza del poppolo per la categoria) venduti anche come autonomi romanzi.
Pare che H.P.L., con la sua tipica mancanza di intuito pratico, tenesse molto alle “Montagne” e molto poco al “Caso”, che infatti fu pubblicato postumo, mentre dei due è sicuramente il più vendibile perché superficialmente più “tradizionale”.
Insistiamo a chiamarli racconti nonostante la relativa lunghezza perché dei racconti hanno la concentrazione. In particolare la storia delle “Montagne” si svolge anche in un arco di tempo brevissimo, durante il quale i protagonisti assimilano una quantità di informazioni del tutto inverosimile. La vicenda del “Caso” invece dura anni, ma è una durata solo apparente perché tutto ruota insistentemente e maniacalmente intorno a un unico elemento e fatti che potrebbero quasi dare vita a un racconto separato e disteso vengono liquidati in poche righe (ad esempio i casi di vampirismo). Probabilmente un autore moderno e più abile nel marketing da “Dexter Ward” tirerebbe fuori almeno una trilogia. Non è poi un caso se i racconti di Lovecraft hanno ispirato tante “estensioni”: la concentrazione del materiale quasi spinge verso uno sviluppo maggiore di temi e personaggi secondari. Certo questo dipende anche dal tam tam che ormai circonda l’autore, ma il processo era iniziato già prima e quindi non si basa solo su trucchetti commerciali.
Comunque, forse l’elemento che più colpisce il rilettore è la grottesca lentezza con cui i protagonisti si rendono conto di ciò che sta accadendo. Probabilmente questo capita anche a chi li legge per la prima volta. Per il lettore è quasi ridicolo che i personaggi continuino a chiedersi quale folle orrore è mai calato su di loro quando praticamente c’è scritto a ogni rigo.
Una delle caratteristiche del racconto fantastico dovrebbe essere l’ambiguità, il dubbio che i fenomeni inspiegabili abbiano invece una spiegazione abbastanza comune. Questa “regola” nei racconti di H.P.L. viene rispettata solo formalmente, perché in effetti le spiegazioni alternative sono appena accennate e comunque appaiono subito risibili. Il lettore non può avere nessun dubbio e tra l’altro è già dispostissimo ad accettare la spiegazione sovrannaturale: anzi, ha comprato il libro proprio per quello. I personaggi di H.P.L. invece si rifiutano sempre fino all’ultimo di fare due più due e questo oggi appare goffo e posticcio.
Ma H.P.L. aveva un altro scopo, e cioè di far apparire l’orrore reale e materiale. Il suo lettore non doveva solo pensare “vabbè, c’è dietro una stregoneria come strumento narrativo”, che è poi quel che pensiamo tutti quando leggiamo storie di fantasmi e simili: no, doveva pensare che quella stregoneria, o quella incredibile anomalia temporale, era una legge del mondo.
Il tipico lettore delle riviste su cui venivano pubblicati i racconti di H.P.L. non aveva problemi a immaginarsi mostri e alieni ma di fatto non ci credeva. Peggio ancora, non si poneva nemmeno il problema. Non aveva intenzione né bisogno di interrogarsi sulla natura di quelle fantasticherie: per lui erano tali e basta, per definizione e anzi per “confezione”. H.P.L. viveva già in un mondo in cui il soprannaturale era un gioco, un divertimento, ed evidentemente questa leggerezza non gli andava a genio. Non che lui “credesse” in qualcosa, ma sentiva che la storia non poteva avere un effetto emotivo ed artistico davvero profondo se il lettore la trattava come un passatempo. H.P.L. insomma dal lettore pretendeva serietà, e infatti i suoi personaggi sono seri fino alla caricatura e all’ottusità: anche di fronte a quintali di prove, continuano a negare. Evitano volutamente di collegare i fatti perché non vogliono accettare le conseguenze, e ciò in quanto le conseguenze sarebbero REALI.
I personaggi hanno paura di capire. Questa paura è il nucleo, ed è un tipo di paura in un certo senso nuovo, molto diverso dalla paura del mostro. Allo stesso tempo, è una paura reale ed antica: l’uomo ha sempre avuto paura della realtà e l’ha nascosta con i più curiosi marchingegni. H.P.L. mostra che la nostra razionalità è un altro di quei mezzucci che usiamo per non vedere: come i fantasmi ci consolano rispetto alla morte, così l’elementare materialismo della nostra epoca ci consola rispetto a qualcosa di molto peggio. Del resto, queste cose H.P.L. le scrive apertamente: la nostra ragione è solo una specie di superstizione, una fragile difesa.
Che poi i mezzi con cui l’autore tenta questa operazione falliscano, è altro discorso. H.P.L. viene in genere considerato un cattivo scrittore, uno che aveva delle buone idee ma non sapeva svilupparle, il che nel nostro mondo imputtanito e stronzo significa uno che non sapeva barare. E Lovecraft infatti non bara: nel suo stile c’è pochissima sottigliezza, non ci sono trucchi, non ci sono sorprese: il fatto viene pedantemente snocciolato e ripetuto e le giustificazioni addotte dai protagonisti per non vedere sembrano ridicole perché SONO ridicole. La realtà è davanti agli occhi, nemmeno mascherata, ma non si può guardare.
Tuttavia, il lettore medio raramente si immedesima davvero in questi personaggi. Lui vede eccome, perché per lui è troppo facile vedere: anzi vuole vedere di più, e si lamenta che Lovecraft non gli illustra meglio l’inconcepibile, come una squallida guida turistica. Il lettore è un turista dell’orrore, mentre H.P.L. pretendeva un esploratore: uno di quelli che arrivato a un certo punto capisce che non è più possibile andare avanti.
– A occhi contemporanei, allenati nelle puzzolenti palestre della scrittura creativa, “Le Montagne della Follia” di HPL devono sembrare un modello di come non si scrive un romanzo.
Tanto per cominciare, la storia non parte col botto e nemmeno in medias res, anzi si presenta come la relazione di uno scienziato. Premesse, cautele, “taccio che” e tutto il resto, l’ideale per far addormentare i pupi. Ma non basta, perché il “romanzo” spreca subito una cartuccia, anzi una cartucciona delle poche che contano nel romanzo avventuroso contemporaneo: fin dal primo rigo si capisce che il protagonista non morirà. E allora che cazzo leggo a fare, si chiederà l’acquirente.
Altro grave delitto è l’assenza di colore. C’è questa spedizione in Antartide composta da un sacco di gente e non ci viene “mostrato” nessuno. Non sappiamo com’è vistito il dottor vattelapesca, se indossa un buffo cappello: se è solito mormorare “accidentaccio” o qualche altra curiosa esclamazione, se ha famiglia. Non sappiamo niente di questa gente, e allora come potremo appassionarci alla loro sorte?
Invece di seguire il giudizioso consiglio “crea un legame tra lettore e personaggio evidenziando ciò che li unisce, ossia di norma le cose più banali”, Lovecraft fa esattamente il contrario: l’unico tratto che sembra caratterizzare questi scienziati è, stranamente, la loro voglia di scoprire qualcosa di rilevante nei rispettivi campi.
E Lovecraft non si perita nemmeno di usare l’altra vecchia tattica suggerita dagli appaltatori di romanzi, e cioè di comunicare questa passione intellettuale riducendola a una passione nota al lettore, ad esempio scrivendo che “al dottor Taldeitali la geologia gli piaceva come ad altri piace la figa”. No. Il dottore si tiene sulle sue. Non somiglia al lettore comune e nemmeno vuole somigliargli.
Ma dopo un paio di pagine il lettore comincia a notare una mancanza ancora più grave: non ci sono dialoghi! Come? Un libro senza figure e senza dialoghi? E allora che cazzo leggo a fare?
Ebbene no, zero dialoghi, quasi fino alla fine. E quei pochissimi che ci sono, nemmeno diretti: nemmeno un po’ tesi, un po’ belli. In breve il lettore scoprirà che c’è un solo vero personaggio, il narratore, e che gli altri sono figure puramente funzionali. Per tacere del fatto che figa zero: non c’è una donna nel raggio di cinquemila chilometri. Ma allora questo, cazzo, non è un romanzo, grida il lettore, e si chiede chi è quel pazzo che vorrebbe farne un film: bisognerebbe rivoltarlo da cima a fondo! E infatti è così.
Ma proseguiamo: si organizza quindi ‘sta spedizione al polo sud, ma tutto il lungo viaggio per mare viene liquidato in pochi paragrafi. Non succede niente! Manco una tempesta, un ammutinamento, un mostro marino. Quasi per dileggio, Lovecraft aggiunge che “il tropico del sud fu superato coi consueti, pittoreschi rituali”. Ma come consueti? Come pittoreschi? Nella storia succede qualcosa di pittoresco e tu non lo descrivi? Ma allora sei un assassino, sei un ladro! Io ho pagato il mio biglietto turistico e tu adesso devi farmi vedere qualcosa! ‘sto rituale me lo devi dipingere, io ho pagato! Se credi di cavartela con “pittoresco” ti sbagli! E mettici un po’ di impegno, dio santo!
Ma Lovecraft niente. Abbottonato, serio, pedante e tecnico, appena sbarcato al polo si mette a parlare di pietre (stranamente, essendo il narratore un geologo), di quarzi, calciti, di ere, tutte cose di cui al lettore non frega un cazzo. E manco un orso polare.
Davvero, a scrivere un romanzo sprecando così le occasioni ci vuole un coraggio. Ma questo è niente rispetto a ciò che sta per non accadere… a questo punto però ci interrompiamo perché ci torna in mente un breve raccontino dell’Elia palesemente ispirato all’opera.
Continua (forse)