Non resta che odiare l’uomo

Il booffo è che nel mondo reale, nei rari casi in cui discutiamo con qualcuno, ci troviamo sempre di fronte a persone che hanno una sola fonte principale di notizie: è (giustamente) molto raro che qualcuno con degli impegni passi ore al giorno a leggere notizie su internet. La conseguenza è che queste persone hanno una visione tutto sommato uniforme della realtà: c’è quello che condanna il razzismo eterno, quello dei complotti europeisti, quello che i giornali bisogna saperli leggere, ognuno con la sua interpretazione d’accatto, il suo sguardo (giustamente, inevitabilmente) parziale.

Noi, si capisce, non siamo d’accordo con nessuno di loro. Per ogni fatto che citano, a noi ne viene in mente uno opposto preso da qualche altro canale di informazione: per ogni tesi, ogni stereotipo, ogni cascame ideologico, a noi ne viene in mente un altro opposto e quindi ci viene da correggere, precisare, in realtà anche mediare, ammorbidire il giudizio altrui perché ci sono altri fatti e altre interpretazioni. L’ovvia conseguenza è che ai compagni sembriamo fascisti e ai fascisti compagni.

Come disse Elia Spallanzani “Il problema è che la complessità, come la fede, non basta esprimerla: bisogna viverla. Perché sia credibile, per farne un modello invece di un qualsiasi prodotto, bisogna patirla nella carne“.

Predicare la complessità e ballare come gli altri al ritmo del tamburo, questa è la ripugnante ipocrisia che infanga il nome già ampiamente sputtanato di “intellettuale”.

Ora, non è che la nostra visione sia completa o coerente. È solo più caotica della media perché raramente ci fidiamo di qualcuno e questo a lungo andare rende pazzi. Ma ciò che colpisce è invece la nostra tendenza, quando scriviamo, a non mediare per niente. Non si tratta però di baldanza che deriva dal non comparire di persona, ma semplicemente dal fatto che sulla rete è possibile scrivere un lungo testo senza essere interrotti, mentre nel mondo reale è praticamente impossibile fare di fila un discorso più lungo di un minuto. La tendenza dei parlanti a intervenire, divagare, saltare da un punto all’altro, equivocare, semplicemente distrarsi, dà alla conversazione quella forma melmosa che ci impedisce di accumulare veemenza man mano che andiamo avanti. Quando scriviamo, in pratica ci sobilliamo da soli e viene fuori quell’assertività che la gente normale sfoga nella conversazione da bar. È possibile che anche loro attraversino una fase di riscaldamento, un auto incitamento, solo che non è scritto e nemmeno verbale, ma avviene di nascosto nel cervello, in sottofondo.

In un certo senso noi abbiamo bisogno di scrivere prima di parlare mentre a loro basta pensarci, solo che in entrambi i casi questa preparazione invece di produrre comprensione o dubbio intensifica l’unilateralità del discorso, che nel nostro caso si manifesta anche attraverso la complicazione della forma, mentre nel loro si direbbe che ci sia anche una semplificazione: la banalità, la ripetizione del già rimasticato viene fuori ancora più semplice (nella forma), ancora più sciatta. La verità è che se noi li sentissimo concionare in uno stile più avvolgente forse non sentiremmo il desiderio di chiarire, precisare, complicare etc. Quel che ci irrita, di loro, non è tanto la pochezza del contenuto, ma la bruttezza con cui viene espresso.

Prova ne è che anche i discorsi più unilaterali e stupidi, vedi ad es. quello che conclude “il grande dittatore”, noi riusciamo ad ascoltarli proprio in virtù della loro forma, la tradizionale retorica, mentre le stesse sciocchezze abbaiate dai compagni, o se è per questo anche dai fasci, ci irritano. Quindi noi siamo vittime di un vecchio incantesimo, della semplice musicalità di certe parole disposte in un certo ordine: ordine tradizionale, che suona ormai quasi una caricatura.
Ma, dopo tante chiacchiere, il succo è che non riusciamo a dire, né a scrivere, quel che vorremmo, perché in entrambi i casi risentiamo troppo della forma, che ci istiga o ci distrae. Anche senza considerare gli effetti pratici, questo è avvilente di per se.

P.S. Inizialmente volevamo dire tutt’altro.

P.P.S.
Quando poi nel mondo reale parliamo con qualcuno di cose di cui abbiamo scritto su internet, siccome appunto ne abbiamo già scritto e ci siamo auto aizzati, la nostra posizione è molto più netta del solito: non ondeggia più tra le solite decine e decine di posizioni tutte più o meno giustificabili in base a qualche stronzata detta o scritta da altri in televisione o sui giornali. In questi casi ci sembra di essere come gli altri, di dire la nostra e avere una parte, e siamo anche convinti che quella sia proprio la nostra parte, non un pezzo dell’opinione di questo mischiata con l’opinione di quello. Che sia qualcosa cui siamo arrivati autonomamente, non solo attraverso l’elaborazione ma anche un sentimento profondo, perché c’è poco da fare, senza il sentimento, che non è la bestialità ma un’onda di coerenza che ti investe completamente, la verità non si distingue.

E dopo quest’uscita l’interlocutore ci guarda: a bocca aperta, colpito: addolorato. Con la terribile intuizione delle donne, capisce che non sono parole estemporanee, che è qualcosa di pensato e forse, vista la sua forma macchinosa, di già scritto. Allora dice “Sei diventato un estremista. Dovresti smetterla con questo internet, ti fa male. Dovresti parlare con un medico, veramente. Tu non stai bene”.
Già.
Già.
Ma a volte io penso mia cara di essermi già districato abbastanza.

P.P.P.S.
Più in generale, il fatto è che la demistificazione è diventata impossibile. Nemmeno il correttore sa la parola. Per demistificare qualcosa ci sarebbe bisogno che qualcuno volesse sapere cosa c’è dietro, ed è proprio questo elemento essenziale che manca. La caratteristica principale degli eventi ormai è la loro prevedibilità. Ad esempio si può dire che l’andamento dell’economia è ampiamente prevedibile. Ci sono degli eventi congiunturali che possono far oscillare un po’ le cose, ma nel complesso si sa come andrà, anche quando si sa che non si sa come andrà. Anche l’oscillazione imprevedibile è sostanzialmente prevista, sebbene non si sappia il dettaglio. È come la storia del clima: le previsioni a tre giorni sono molto precise, quelle a dieci no, ma quelle a vent’anni sono abbastanza precise, e comunque anche quelle ottimistiche fanno paura. Quindi non c’è un cazzo da demistificare, perché chi fa previsioni diverse non sta mistificando, sta solo spudoratamente mentendo e non vuole accorgersene, come non vuole accorgersene il suo pubblico. Idem negli altri settori: si può dire che l’era degli inganni è finita, qui non c’è più nessuna raffinata distorsione della realtà, ma solo la sua schietta negazione. Il che vale anche nella letteratura, nell’arte: le nullità elevate a maestri sono palesemente nullità, non c’è nessun mistero, nessuna macchinazione: sono dichiaratamente delle nullità elevate a maestri, quindi è inutile ragionare e cercare prove di una nullità che è lampante ma continuamente negata, e anche negata senza alcun argomento perché, di nuovo, argomento non c’è. Non c’è. Non si può fare niente, la ragione è impotente, il linguaggio fallisce e viene alterato perché fallisca sempre di più. Anche se qualcuno di questi sporchi bugiardi venisse per puro caso trascinato nella polvere e schiacciato dalla macchina, ce ne sarebbero altri cinquecento milioni pronti a sostituirlo. La menzogna spudorata ride della sua intoccabilità, in essa si esalta. È “resiliente”, tutto rimbalza contro di lei perché è voluta, intensamente e gelosamente voluta. Cosa vuoi svelare? Non ci sono veli! Non c’è più niente tra te e la bocca sporca di merda del mondo, ti alita proprio in faccia e tu dici va bene, se io la vedo e un altro no, e qualunque sforzo io faccia non riuscirò a fargliela vedere, né lui a non farla vedere a me, allora vuol dire che lo devo uccidere, o mi devo uccidere, o me ne devo andare. Non c’è alternativa. Ma dove vado?

P.P.P.P.S.
In altri tempi era più facile essere tolleranti, accettare l’idea che anche la discussione più onesta e competente potesse finire senza risolvere il contrasto tra due posizioni opposte. La persona normale, di NORMALE intelligenza, capiva i limiti della sua intelligenza e della sua capacità di conoscere. Ma oggi no. Oggi, fermo restando che l’intelligenza non ha fatto passi avanti, la capacità di conoscere è aumentata molto, e quindi ad esempio pare inconcepibile che il mondo si faccia sorprendere da una malattia il cui arrivo era prevedibile e previsto, così come la sua diffusione e il suo sviluppo. Sembra incredibile che si dibatta da trent’anni senza costrutto su temi di cui sappiamo praticamente ogni cosa. Col crescere della capacità di prevedere è cresciuta anche l’evidenza che sotto c’è una volontà: slegata dalla realtà. La volontà è diventata cento volte più grande, quella volontà che in fondo è il proprio dell’uomo e che una volta l’impotenza seppelliva. Ma abbiamo scavato e scavato e tirato fuori questa statua immensa e orrenda della volontà e man mano che scavavamo sembrava sempre meno figlia del pensiero e più delle viscere, dei genitali. Una volontà che non vede ma procede, pur potendo vedere non vuole, è questo che fa diventare pazzi, che sembra non voler vedere, oppure forse vede troppo bene e siamo noi che non la capiamo ed è evidente che ci passerà sopra, per andare all’entusiasmante velocità di trecento chilometri all’ora verso il macello. Non riusciamo ad accettarlo, possiamo accettare di non sapere ma non di non avere alcuna possibilità: riusciamo a vedere la fine che faremo e non possiamo farci niente perché qualcosa immensamente più forte di noi non vuole, e non è dio né la natura ma l’uomo. Dopo aver bestemmiato, dopo aver imparato a spaccare le pietre, non ci resta che odiare l’uomo: ed è più difficile uccidere lui che il mondo o dio.
Basta.

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