Negli ultimi anni di vita Elia Spallanzani ricominciò ad attendere alla messa. Non che si fosse ravveduto: semplicemente nel paesucolo era l’unico posto in cui si potevano sentire discorse che non riguardassero il calcio, la politica locale e il pettegolezzo da serve. Per lui che in campagna non aveva la televisione era anche una specie di finestra sul mondo, perché il nuovo parroco aveva una trentina d’anni e spesso infilava nella predica qualche riferimento all’attualità, e una volta Spallanzani lo sentì persino citare Borges (naturalmente sbagliato, ma era un tentativo). Restava il problema che lui, cioè l’Elia, non aveva mai padroneggiato l’arte di alzarsi e sedersi a ritmo con il gregge: restava sempre un po’ in ritardo sull’onda e a volte si perdeva in qualche suo inane ragionamento e rimaneva impalato mentre tutti si siedevano, o viceversa, e questo, unito al suo aspetto trascurato, lo fece subito classificare come un povero debole di mente: e quando poi invece i fedeli seppero che aveva studiato, e che addirittura era professore, ne trassero conforto, in quanto se lo studio ti riduceva così allora avevano fatto bene loro a non studiare mai, come del resto avevano sempre pensato. Ciò non impedì al popolo di prenderlo ancora più in odio, perché fin quando le sue stramberie parevano figlie della miseria e della stupidità allora era da compatire, mentre le stesse identiche stramberie commesse dall’istruito indicavano boria, superbia e intollerabile volontà di distinguersi, quindi andavano vituperate. In quel paese, come nel resto del Paese, solo al cretino era lecito spiccare, che poi era il motivo per cui tanti cretini spiccavano.
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Discorse sul calcio, il gossip da cortile peggio dei sermoni dei preti (pur trentenni)? Era messo male ‘sto Spallanzani.