Viene da chiedersi come mai Elia Spallanzani continuasse a scrivere lettere a parenti e conoscenti in cui esponeva le sue idee per racconti, visto che quasi nessuno gli rispondeva e le rare risposte suonavano di una stupidità ripugnante.
A questo proposito disse Spallanzani:
“In cinquant’anni non è mai venuto nessuno a farmi quelle domande oziose che fanno agli scrittori nelle interviste dei giornali, ad es. “dove prendi le tue idee” o “qual è il tuo metodo di lavoro” (adesso scrivere lo chiamano “lavoro” ed è tutto un brulicare di “officine”, “laboratori”, e il termine “brulicare” è involontariamente esatto).
Se fossero venuti gli avrei detto che io trovo molto faticoso scrivere, o meglio spiegare ed esporre cose che già vedo nella mente, per cui in genere faccio solo soggetti nella speranza che qualcuno li voglia sviluppare: il che non accade, o se accade nessuno me lo dice. Ciò nonostante, continuo a mandare questi abbozzi agli amici perché il vago spunto da cui parto si sviluppa solo parlando con qualcuno, anche se quel qualcuno si limita a fare da spettatore o pone solo qualche domanda sciocca. Se sono da solo, non riesco ad andare oltre l’inizio perché non so come prosegue la storia ma allo stesso tempo so già come prosegue: è come se, immaginando in generale la grande rete di sviluppi possibili (estesa, ma non illimitata), questa sola immagine mi stancasse, impedendomi di percorrere i vari rami. Quando parlo con qualcuno invece riesco ad andare avanti lungo un percorso, per quanto alla fin fine sia inutile. In pratica io non riesco a raccontare a me stesso o a un pubblico immaginario, ma solo a un singolo essere vivente: se qualcuno mi chiedesse di descrivere meglio una scena, e poi i dettagli di quella scena, e poi ogni secondo di quella scena, forse lo farei. Ovviamente nessuno me lo chiede.
Anche i dialoghi dei miei racconti sono nel 98% dei casi conversazioni realmente accadute, altrimenti non avrei mai affrontato la fatica di scriverle. La mia narrativa quindi è intrinsecamente interattiva, che è la stessa cosa di dire che io sono un tipo di narratore orale più che uno scrittore. Per questo quando trovai mia nipote che giocava con gli amici a dungeons and dragons capii subito che per tutta la vita avevo fatto il master senza saperlo. Giocavo a un gioco che non esisteva ancora e questa, in effetti, è una buona descrizione della solitudine”.