Il gemello di sabbia

towinistolose

Intorno al 1985 Elia Spallanzani era già un vecchio. Il suo interesse per i computer e i giochi di ruolo veniva considerato solo l’ennesimo sintomo di rammollimento cerebrale. E poi era incapace di programmare: dimenticava regolarmente i formalismi del basic e all’ennesimo sintax error per mancanza di una virgola bestemmiava come uno scellerato. Tutti i suoi tentativi di illustrare ai conoscenti le potenzialità iper-letterarie del computer terminavano sempre con una sfilza di errori e bestemmie e cazzotti tirati sulla per altro costosissima tastiera del suo M24 comprato a rate.

Tuttavia non demordeva ed era particolarmente affascinato da “Eliza“, il famoso simulatore di psichiatra che in effetti era un semplice analizzatore di testo capace di individuare una trentina di costrutti elementari e rispondere con una limitata serie di formule, che includendo l’input dell’utente davano l’impressione di qualche tipo di comprensione.

Spallanzani capiva benissimo che era l’utente a proiettare sulla macchina un barlume di intelligenza, come del resto avrebbe fatto con un cane o anche un cacciavite (lui per primo aveva un cacciavite che si comportava in maniera abbastanza prevedibile, nella sua scorrettezza), ma gli tornava anche in mente quel commovente racconto, “Requiem automatico“, in cui un solitario minatore spaziale addestra un automa a dare certe risposte e col tempo finisce per costruire uno specchio di se stesso come unico compagno fino alla fine. E perciò Spallanzani decise di modificare il codice di Eliza per creare “Eli(z̶)a”, un suo doppio, che oltre a rispondere potesse anche imparare nuove frasi.

L’Elia, abbiamo detto, non sapeva programmare, ma la logica di base la capiva: per aggiungere casi ad Eliza gli bastava appunto modificare il sorgente, ma lui voleva che le modifiche potesero essere inserite dall’utente attraverso l’intefaccia testuale, creando un cortocircuito tra la finzione della simulazione e la consapevolezza della natura fittizia: come il protagonista del racconto, l’utente doveva sapere e vedere in ogni momento che era lui ad aggiungere stimoli e risposte, e questo secondo l’Elia non avrebbe ridotto il suo coinvolgimento emotivo, anzi l’avrebbe infinitamente rafforzato.

Inutile dire che i suoi tentativi fallirono: per mesi il computer continuò a sputargli in faccia i suoi sintax error e l’Elia come al solito cominciò a chiedersi perché fare tanta fatica per realizzare davvero qualcosa che nella sua mente lui già vedeva, e che le parole riuscivano già a descrivere in maniera soddisfacente. Ma l’improntitudine del computer lo indispettiva e gli dava l’impressione che si rifiutasse coscientemente di farsi programmare in maniera diversa. Subito prese forma nella sua mente la storia di un uomo che programma una macchina per darle una patina di umanità e si accorge che quella cerca di evitare manipolazioni del suo sè. Come sempre in lui tutto diventava un groviglio inestricabile di storie dentro storie che si combattevano e distruggevano l’un l’altra e allora per uscire da questo circolo creò un programma più semplice, che costruiva in maniera semi casuale un programma in basic, che ovviamente non funzionava, e ad ogni sintax error sparato dal computer ricominciava. Quando finì era notte fonda e lo lanciò, lo lasciò girare per tre giorni di fila, milioni e milioni di volte, e quando il terzo giorno lo fermò non si poteva capire chi stava dicendo sintax error a chi.

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4 risposte a Il gemello di sabbia

  1. Andrea Giammanco ha detto:

    bella ztoria, ma devo segnalarvi un orthography error: sintax si scrive syntax.

  2. Pingback: Lo stile italiano sopra la funzione | Fondazione Elia Spallanzani

  3. Pingback: Gli automi cellulari e la radice del sacrificio | Fondazione Elia Spallanzani

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