Pagherai vivendo

Esiliatosi polemicamente nel suo podere di Passogatto, lo Spallanzani non si faceva mancare nessuna delle gioie agresti: zanzare d’estate e nebbia in inverno, demenziali liti di confine tutto l’anno ed episodi di abigeato. Mite, occhialuto, inabile, lo scrittore era a tutti naturalmente inviso, e quando si offrì di tenere gratis un doposcuola per i bambini del contado lo odiarono proprio. I figli già perdevano mezza giornata in classe, figurati se potevano sciupare anche il pomeriggio. Spallanzani però da ragazzo aveva imparato che il popolo è affamato soprattutto di rose e di cultura, per cui il doposcuola lo organizzò lo stesso e per ben tre anni tenne lezione in un pagliaio vuoto: finché, esasperati, i potenziali alunni non glielo incendiarono, tracciando sul muro bruciaticcio un più che credibile “colpiremo ancora”.

Per il rimanente, tutti lo ingannavano. I villici sfoderavano contro di lui ogni contadinesca arguzia per rifilargli pecore moribonde, galline strabiche, sementi marce e legna verdissima, così fresca che a buttarla nel fuoco gridava, ma tutti gli stratagemmi perfezionati in secoli e secoli di quotidiane truffe alimentari erano perfettamente inutili con lo Spallanzani, che non se ne sarebbe accorto comunque. Per quanto avesse sempre vissuto nella menzogna, la sua era una falsità gratuita, inutile e, in una parola, del tutto signorile: era una menzogna così priva di scopo da risultare in pratica solo verità vista da un altro alto. Niente l’aveva mai abituato alla menzogna interessata dei contadini, che lui in realtà nemmeno capiva: gli avrebbe dato volentieri più soldi del giusto, se solo glielo avessero chiesto, ma il loro gusto stava appunto tutto nel truffare il prossimo e quindi si sarebbero offesi.

Il più rapace ed assassino dei buoni contadini era il fattore. Assisteva la famiglia Spallanzani da sempre, e prima di lui l’assisteva il padre, e prima il nonno: infatti nel giro di un secolo scarso gli Spallanzani erano passati dalla seminobiltà alla miseria: dove un tempo garrivano i loro stendardi con l’araldico lepre e la vigile ciovetta, ora regnavano solo il pervenuto, il meccanico, e il fattore. Nottetempo bacchiava incognito i miseri mandorli, idea già cattiva di Spallanzani padre, e sradicava le querci per farne commercio, dando poi la colpa a inudibili temporali e al padron dio fottuto (così diceva, Lui ci perdoni), mentre di giorno piangeva miseria onde scucire al signorino, cioè al Nostro, il conquibus per acquistare nuove macchine e scorte, che la notte stessa, va senza dire, appena battezzate e inaugurate sparivano in un fiat, e di ciò dava invece la colpa agli zingari, per altro rarissimi di quei tempi. “So’ i zincari, dottò”, diceva allargando le braccia, “a pena ca girate l’uocchie… è ‘nu guaio!”.

Nei primi giorni del gennaio 1999, mentre lo Spallanzani cercava inutilmente di dare fuoco alla legna verde procuratagli a carissimo prezzo dal fattore, un misto di brividi e di febbre maligna lo riportarono all’infanzia e a un episodio che avrebbe segnato per sempre il suo carattere. Ora si trovava di nuovo davanti alla fontana del paese, vittima degli sfottò degli altri bambini perché il suo nome finiva con la “a”.

A Russi negli anni trenta la regola era chiara: “a” finale uguale femmina, e infatti c’erano una signorina Enea e anche una zia Vania. Lo Spallanzani era praticamente circondato dal dileggio e sul punto di scoppiare in lacrime, che sarebbe stata la fine per un balilla, quando attratto dalle grida si fece avanti un uomo: era Don Giupeppe De Fecola, canonico del paese. Bella figura di intellettuale autodidatta, Don Giupeppe era scappato dal seminario a quattordici anni sedotto dall’eresia Donatista.

Arruolatosi volontario durante la prima Guerra Mondiale, si era conquistato sul campo il grado di cappellano per la fede manifesta e una minuziosa conoscenza dei santi, che bestemmiava per un nonnulla. Ritornato alla vita civile, si era insediato nella diroccata e abbandonata chiesucola di Russi e nessuna autorità civile o religiosa aveva avuto il coraggio di mandarlo via, perché sparava. Alto, robusto, collerico, ridanciano, ardente in opere come in pensieri, odiato dai fascisti e peggio ancora dai comunisti, Don Giupeppe faceva lo stesso alto e basso, e con un solo gesto disperse i monelli neanche fossero galline. Piazzatosi davanti al giovane Spallanzani, che aveva le caviglie blu dal freddo e il viso color ciliegia, lo aveva guardato come una strana bestia e aveva chiesto:

“E tu, tu chi sei?”
“Il figlio di…”, stava rispondendo il Nostro quando il prete urlò: “Il nome! Dimmi come ti chiami!”
“Eli…”, sussurrò Spallanzani.
“Come?”
“Eli…”, cercò di ripetere.
“CHE COSA?”, sbraitò De Fecola. “Parla forte soldato!”.
Allora Spallanzani raccolse tutto il suo coraggio e alzato il viso al faccione del prelato urlò: “Mi chiamo Elio!”.
“Ah!”, fece il prete, e il suo viso di rude eretico e sacrista parve illuminarsi: “Elio, come il dio dei venti! Bravo, bravo, continua così!”, e se ne andò.

In quel supremo momento lo Spallanzani intuì la magia delle Palore.

P.S. “Davvero non so”, scrisse Spallanzani, “come mi sia venuto in mente di ritirarmi in campagna, quando ne ero fuggito a quattordici anni e per i più validi motivi. Ma vedo che molti uomini commettono questo errore, di credere che siccome la loro vita è stata un fiasco allora bisogna tornare alla prima biforcazione, alla prima scelta, e prendere l’altra strada. O più probabilmente questo è un modo di anticipare l’inferno, costruito col tradizionale metodo del contrappasso: hai voluto scansare la terra e le oneste fatiche, le gioie ascose, i villici furbi e ciarlieri, la sera del dì di festa? Ti è piaciuto giocare allo scienziato? e adesso paghi, prima di crepare paghi perché all’inferno tu non ci credi e devi costruirtelo da te. In tutta la mia vita ho cercato il gratuito, l’atto libero, ma come ogni altra cosa anche l’inferno si paga. È terribile: in questo luogo folle non riesco a far altro che diventare più sensato.”

Da “Vivere in campagna restando umani”, 1999.

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2 risposte a Pagherai vivendo

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