Nuovo anno, nuovo libro

Negli anni ’80 l’accademia italiana, tra gli altri annosi difetti (nepotismo, triangolazione recensoria, rilassamento morale e generale imputtanimento) presentava anche una deplorevole mancanza di studi su Spallanzani. Il primo ad accorgersene e a denunciare il fenomeno fu caratteristicamente proprio l’Elia: “ma come!”, urlava incredulo scorrendo le polverose riviste culturali: “ma allora che cazzo sto scrivendo a fare da trent’anni?”. Più di una tessera gli fu strappata per intemperanze, e la biblioteca comunale lo dichiarò persona non grata.

Nella sua ingenuità Spallanzani aveva sempre creduto che al totale disinteresse del pubblico per il suo lavoro corrispondesse quasi naturalmente un vivace per quanto sotterraneo dibattito tra gli scrittori*: lui si pensava ed era, per definizione, uno scrittore per scrittori, perché altrimenti avrebbe fatto il “qualcosa prestato alla scrittura”, come il giornalista o il faccendiere. Epperò ormai di questo scoppiettante brulichio culturale avrebbe pur dovuto avere qualche sentore, mentre l’unica comunicazione accademica che aveva ricevuto in tanti anni era il formale ripudio da parte dell’Oulipo, che minacciava anche denunzie. Tutto ciò, unito alla dolorosa separazione dalla moglie Alice, piombò il Nostro in uno stato di depressione acuta (all’epoca si chiamava ancora “esaurimento nervoso” e implicava una certa accusa di fatuità).

E fu anche per reagire alla caligine che minacciava di soffocarlo che l’Elia pensò bene di saltare l’ostacolo a piè pari: siccome non poteva fare favori per ricevere favori, né poteva ricorrere alla triangolazione, decise di scriversi direttamente lui i commenti, come del resto facevano da anni i suoi ex amici Calvino e Manganelli, che si scrivevano anche le quarte di copertina. E così nacquero gli acutissimi “Studi in onore di me stesso”, che l’Elia commise solo il grave errore di firmare e che tanto indignarono i benpensanti: sicché, di tutte le sue opere questa è certamente la più misconosciuta e rara, tanto che alcuni studiosi (in pratica il solito Spallanzani) ne negarono a lungo l’esistenza.

elianazione

“Borges, questo facile snocciolatore di paradossi, afferma che taluno individuo non sarebbe tanto uno scrittore quanto un’intera letteratura: compiacimento che, all’evidenza, attribuiva innanzitutto a se stesso, e che infatti gli è stato poi ripetutamente affibbiato. Ma solo lo …, prima costretto dalla volgarità dei tempi e poi con gloriosa coscienza, è stato realmente autore, editore, divoolgatore, pubblico e critico ora ingenuo ora feroce della sua opera, critico della critica, filologo di se, e armata. Tanti se la sono suonata e cantata, certo: innumerevoli; ma solo … è stato DICHIARATAMENTE una cultura letteraria intera, con i suo rari splendori e le frequentissime meschinerie, i suoi dibattiti e le sue beghe, le falsificazioni e le scoperte, tutto in una volta e per gli stipendi di nessuno. Con un’ultima alzata di ingegno è stato persino censore di quell’intero universo, risucchiandolo in stesso come l’inafferrabile dio degli gnostici. Perciò quest’unico verace iperautore merita di essere onninamente cancellato da ogni storia delle squallide umane letterature, in modo che al suo posto restino, come in principio, soltanto il mare e il silenzio”.
E.S., prefazione agli “Studi in onore di me stesso”.

polveere

* Dal canto suo, Spallanzani criticava raramente i suoi colleghi, anche perché non li leggeva, ma coltivava un inspiegabile disprezzo per Pirandello. In primo luogo, perché gli avevano dato il Nobel, e poi perché lo trovava volgare. “Scrive come un maestro di scuola, che del resto è”, annotava Spallanzani. Soprattutto lo facevano ammattire i cognomi che Pirandello sceglieva per i personaggi: “Sono cognomi STOOPIDI”, scriveva alla lavagna, di punto in bianco, durante la lezione di fisica. “Come si fa a scrivere duecento novelle e a metterci sempre cognomi stoopidi?”, sbraitava Spallanzani. “Citatemi un solo personaggio di Pirandello che non abbia un cognome di merda!”, insisteva; e rincarava: “Provate a leggere a voce alta una sua qualsiasi novella: lingua di cartone, pensieri di cartone!”. Per Spallanzani Pirandello era il punto più basso della già modesta letteratura italiana del ventesimo secolo. Inevitabile che passasse per genio. “Basta leggere quella merda de “L’umorismo” per farsi il quadro”, diceva ai sempre più rari conoscenti. “Volgare, basso, stoopido…”. Ovviamente nessuno lo cagava, ma dobbiamo dire che noi dopo aver letto le sue osservazioni un po’ ci siamo convinti: Pirandello è davvero uno scrittore di merda, anche se in un modo molto più subdolo di tanti altri.

P.S. Veramente (poi la smettiamo) il Nostro appare come quella tragicomica entità venerata da certi dementi, che fa per errore il basso mondo materiale e ci resta intrappolata in infinite copie di se stessa, che aspettano inconsapevoli da se stesse un messaggio per risvegliarsi. Come il proverbiale barone di munciauso che vorrebbe ascendere a’ cieli tirandosi per i capelli, come un alfabeto inciso attorno a una trottola che gira così veloce da apparire ferma, come echi, specchi, risacca, eternamente convinti di progredire, ragionatori implacabili quanto capziosi, pateticamente esaltati dalla loro stessa intollerabile condizione di nulla. Un vuoto che stride esultando, de profundis clamavi ad me, una meccanica contraddizione che permuta, permuta, permuta i suoi quattro elementi senza memoria, così che gli pare di non avere fine. A questo punto ne basterebbe uno, questo punto SAREBBE uno e non sentirebbe bisogno di essere altro e questa sarebbe almeno la pace.

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