Elia Spallanzani aveva un debole per i poeti curdi, e ciò molto prima che la moda dilagasse. Il suo preferito era il famoso Cameli Dede Harrea, per gli amici Dede, autore degli immortali versi:
“Datteri, tè al gelsomino:
passo elastico di dromedario.
Datteri, tè al gelsomino:
luna fatata imbrina i deserti.
Datteri, tè al gelsomino:
escursione termica mica da ridere.
Datteri, tè al… mmm… SBROAT”.
Mentre (con suo raccapriccio) in Italia si diffondeva la moda delle poesie di Hal Damerini, Elia Spallanzani si batteva per promuovere lo stilnovismo curdo e in particolare il suo massimo esponente, il sullodato Cameli Dede Harrea. Per attirare l’attenzione delle masse Spallanzani pensò a un trucco vecchio come il cucco, un classico dei soliti giri di puttane intellettuali: il premio letterario. Negli anni ’70 l’Italia era piena di premi letterari tutti modellati sulla falsariga di Sanremo e tutti notoriamente farlocchi, con giurie composte da parenti e amici che se la cantavano e se la suonavano sui giornali che era una bellezza. Il progetto era buono e il successo assicurato ma stranamente quando Spallanzani cominciò ad attaccare i manifesti con su scritto “Primo Premio Internazionale Dede Harrea” le reazioni furono tiepide. In tutto, solo due persone si candidarono e una con l’atroce distico “sopra la palma la capra falba, sotto la palma la capra impreca”.
P.S. Spallanzani invidiava molto quelli che venivano chiamati maestri. Il maestro questo, il maestro quello: il maesdro Dede Harrea. A lui nessuno l’aveva mai chiamato maestro, tranne a volte le mamme dei suoi studenti liceali: ah quindi lei è il maestro, dicevano ridacchiando durante le micidiali riunioni del consiglio, perché era l’unico insegnante maschio della sezione e conservava un aspetto giovanile. Ma aveva sessant’anni e queste facezie avevano smesso di divertirlo a 27. Erano trentatré anni che vedeva spuntare maestri, gente che secondo lui meritava la sferza e che invece si gonfiava e levitava nell’empireo delle lettere mentre la sua opera, la sua di lui, di Spallanzani, restava misteriosamente incacata. Eppure non diventò mai un cinico, conservò sempre un suo istintivo amore per il poppolo. Mai Spallanzani diede degli stronzi vigliacchi ai suoi lettori, anche perché non ne aveva: no, il suo disprezzo fu sempre e solo rivolto verso i maestri, la stessa parola gli sembrava così stupida che, si diceva, era lieto di dover morire prima che lo affibbiassero anche a lui. Perché di questo era certo, che prima o poi anche lui avrebbero scoperto perché la gente di un certo tipo deve sempre scoprire qualcosa, giustificare la sua posizione con la scoperta di qualcosa e questo spiega come mai il numero di maestri in giro sia direttamente proporzionale all’imputtanimento della società: per secoli c’era stato un maestro ogni 30-40 anni mentre solo nel diciannovesimo secolo se ne contavano una dozzina e nel ventesimo un centinaio. Lui calcolava che la progressione geometrica avrebbe imbottito il ventunesimo secolo con un dieci-dodicimila maestri, abbastanza da far collassare ogni manuale di storia della letteratura in un buco nero supermassiccio. A metà del terzo millennio tutti gli abitanti del pianeta sarebbero stati maestri, anzi: Maestri. Il maestro questo, il maestro quello, e il maestro Dede Harrea.