Civiltà del gioco

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Il dubbio è: se esiste uno stretto legame tra religione, ideologia, spirito e modo di produrre, quale sarà lo spirito di una società in cui il lavoro diventa meno necessario? Se milioni di persone potranno vivere grazie a fabbriche automatiche, diventando semplici consumatori, cosa faranno delle loro vite? Davvero si daranno all’arte, alla filosofia o al giardinaggio, come nell’immaginario paradiso comunista?

Considerando che già ora buona parte della pubblica amministrazione non svolge alcun lavoro, o almeno nessun lavoro che sia realmente richiesto, viene da pensare che domani gli uomini piuttosto che filosofare si inventeranno lavori di cui non c’è necessità, e pretenderanno comunque il riconoscimento della loro posizione attraverso un simbolo equivalente al denaro. Per questioni di inerzia è probabile che lo spirito del capitalismo sopravviva per secoli alla fine del vecchio sistema economico, anzi può darsi che questo sia già accaduto.

Il proverbiale pensionato che sorveglia i lavori pubblici soffre per la mancanza di potere, cioè della possibilità di orientare le scelte altrui. È chiaro che vorrebbe parlare, dirigere, non manovrare la pala (se non per dare l’esempio). Quell’uomo prefigura la società senza lavoro, che è molto più facile da immaginare di una società senza potere.

Invece di milioni di filosofi e artisti avremo milioni di vecchi impiccioni, la tendenza manipolatrice si riverserà nelle attività quotidiane, nella politica: i cittadini col reddito base non smetteranno di interessarsi di voi anzi emergerà la natura dispotica dell’ozio, che è così evidente nelle società primitive in cui il lavoro non era una stretta necessità. Ciarlieri, pettegoli, malfidati, i privi di cure se ne creeranno di nuove e le imporranno agli altri, passeranno le giornate a strepitare perché non gli si dà ascolto, pretenderanno di esercitare comunque qualche forma di potere e quindi bisognerà dargli arene in cui combattere tra loro, se non vorremo averli ogni minuto tra i coglioni a dettare legge.

Nella migliore delle ipotesi, la società futura (in effetti già attuale) sarà una società del “gioco”, inteso soprattutto come un’attività che somiglia al lavoro o alla guerra, una specie di simulazione che prepara a. Ma questa simulazione resterà tale, non ci sarà mai bisogno di passare alla “cosa vera”, o comunque lavoro e gioco diventeranno indistingubili. Il fatto che già adesso i videogiochi vengano spacciati per sport, come anche il poker detto appunto “sportivo”, dimostra che sta già accadendo. Ora guardiamo bene i bambini e i loro giochi: noteremo che alla lunga dispotismo e crudeltà non possono che dominare.

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Ma tutto quello che stiamo dicendo oggi è già espresso in un vecchio fumetto, Andy Capp. Andy prende il sussidio e ruba i soldi alla moglie. Non lavora e non vuole nemmeno farlo, però è probabile che in realtà del suo lavoro non ci sia nessun bisogno. Come tutti gli sfaccendati, ha i vizi dei ricchi: la socialità, le donne, i cavalli, l’alcool, gli sport violenti. È anche un irascibile dispensatore di perle di saggezza. Quel che colpisce è l’impegno con cui Andy ozia.

Tutta la sua giornata è piena di affanni necessari ad oziare. Persino quando si dà a uno sport lo fa con accanimento, è un giocatore violento e scorretto e lo è tanto di più perché la sua attività non serve a niente e non procura alcun vantaggio. Andy è infantile non tanto perché rifiuta le responsabilità, ma perché fa uno sforzo enorme per giocare senza alcun costrutto. La sua vita è una routine indistinguibile dal più duro lavoro e la sua grande soddisfazione è mostrare agli altri che la sua vita è preferibile alla loro: ancora una volta lui non si limita a scroccare l’esistenza, ma vorrebbe anche insegnare agli altri come si fa, esercitare cioè qualche forma di potere. I lettori lo trovano inizialmente simpatico perché libero e strafottente, ma in breve nei più sensibili si fa strada un disprezzo per il suo dispotismo, per la crudeltà con cui tratta la moglie e i “normali”, un disgusto per il suo egocentrismo infantiloide, che non a caso diventa il tratto dominante di una società giunta alla piena automazione.

Negli anni ’90 dal fumetto è stato tratto un videogioco piuttosto fedele. Nelle recensioni dell’epoca appariva già chiaro che la vita di Andy sembra libera e gioiosa solo finché non provi a giocarla per dieci minuti. Senza lo spirito restano solo noia, angoscia e depressione.

P.S. “…Andy è un anarchico tipicamente dei nostri anni, anzi dei nostri mesi…Nell’agire – ovvero, nel non agire – di Andy c’è il germe della dissoluzione societaria: se il suo comportamento diventasse epidemico sarebbe la fine della civiltà occidentale”. (Carlo della Corte, da ‘Arriva Andy Capp’, Editoriale Corno, Dicembre 1968).

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2 risposte a Civiltà del gioco

  1. Ovodoro ha detto:

    “La sua vita è una routine indistinguibile dal più duro lavoro e la sua grande soddisfazione è mostrare agli altri che la sua vita è preferibile alla loro: ancora una volta lui non si limita a scroccare l’esistenza, ma vorrebbe anche insegnare agli altri come si fa, esercitare cioè qualche forma di potere”.
    Non è quanto già accade con i life coach e affini?

    E in internette (Feisbucchinemammeta, iutubb et alii), orde di filosofi e artisti non fanno già un lavoro che somiglia al gioco che somiglia alla guerra (per via dell’equazione marketing=guerra)?
    E questi lavori che fanno questi filosofi e artisti della rete non sono lavori non realmente richiesti?

    Quindi i filosofi e artisti della società priva di lavoro… non esistono già?

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