I c.d. meme si diffondono anche perché la loro forma è diventata di per se un segnale ampiamente riconosciuto. In un ambiente dove l’attenzione è scarsa e tanta gente ha paura di sembrare stupida o ingenua, la cornice del meme dice già da sola “questa è una cosa che fa ridere, ma non tutti”, e la gente la diffonde senza preoccuparsi nemmeno di che significa. Ormai è come se quella forma garantisse qualcosa, come un timbro ministeriale di un’altra epoca. Un messaggio più complesso o più ambiguo, o anche solo l’identico messaggio ma senza la cornice, richiederebbe uno sforzo di comprensione e un rischio sociale di diffusione che nessuno vuole correre. Che poi è quanto rende il c.d. meme l’esatto equivalente del vecchio tormentone, che fa ridere solo perché la gente ha sentito dire che fa ridere, e che si può ripetere senza preoccupazioni e anche variare senza alcun talento. Già una barzelletta è molto più complessa, per dirla efficacemente bisogna capirla e saperla interpretare, mentre variarla o declinarla è difficile e si rischia la figuraccia di non far ridere (come se poi far ridere non fosse sostanzialmente un regalo, ma una specie di obbligo). È vero che il “meme” in origine può contenere una battuta o un’idea, ma il processo della sua circolazione lo spoglia rapidamente dell’effetto sorpresa e perciò deve entrare in gioco un altro fattore, che è la contagiosità di certi fatti biologici come lo sbadiglio o il sorriso. A un tratto la reazione diventa automatica, irriflessa, e la mutazione puramente meccanica (favorita dalla natura elementare della battuta di partenza, che in genere appartiene alla categoria della contraddizione o del “colmo”). Il problema comunque resta come opporsi. Come si fa a sottrarsi allo sbadiglio?
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