I personaggi di “Crocevia“, celebre giallo metafisico di Spallanzani, sono più volte colti da dubbi sull’esattezza dei loro ricordi. A un certo punto l’autore mette in bocca al dottor Stuffenbau* questa considerazione inconfondibilmente spallanzanesca, tipicamente eliana:
“Il ricordo”, disse Stuffenbau a madamoiselle Mimolotte, “è come una torta gelato: ogni volta che la tiri fuori dal frigo per guardarla si affloscia un pochino e quando la rimetti dentro si ricongela in una forma leggermente diversa. Dopo cento, mille ricongelamenti le sue cuspidi di panna sono diventate dei bottoni, la sfoglia si è bagnata mille volte e ha ceduto sotto il peso delle creme, la forma di corona è perduta, i cristalli di ghiaccio hanno sgretolato la struttura, che ora somiglia a uno squallido ciambellone. Quando infine la tagli il coltello fa il rumore di qualcosa che fende la ghiaia”.
In vari racconti del Nostro emerge questa disperazione per il fatto che è impossibile conoscere qualcosa senza modificarlo*, boccone avvelenato comparso in letteratura molto prima che la scienza l’inghiottisse avidamente e ci si strozzasse.
Ma ci sono anche casi inquietanti di memoria stabile, fin troppo, come quello descritto da Lurija in “Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla“. Il tizio in questione, tale Šereševskij, ricordava dopo vent’anni tabelle di simboli e formule di cui non capiva nemmeno il significato. Conservava ciò che vedeva sotto forma di complessi sinestetici con una tale persistenza che, ad esempio, trovava difficile leggere i romanzi: convertendo tutto in immagini i vari mondi letterari sembravano sovrapporsi e quindi se leggeva che un personaggio entrava in una locanda a lui comparivano in mente tutte le locande in cui erano entrati tutti i personaggi di altri libri, e perciò quasi si aspettava che si incontrassero**. Se poi trovava un personaggio con un mantello e dopo duecento pagine lo scrittore invece di mantello usava “abito” o “cappotto”, lui se ne accorgeva e trovava la cosa insopportabile.
Per la stessa ragione aveva difficoltà coi sinonimi. Ogni parola per lui non solo era un’immagine complessa ma si tirava dietro anche sensazioni olfattive, tattili, uditive, dunque una parola poteva essere aspra, gialla, ruvida, e questo valeva anche per le sillabe che la componevano. Per lui “ladro” e “malfattore” erano termini radicalmente diversi da tutti i punti di vista e gli sembrava incomprensibile che fossero riferiti alla stessa persona.
Si noti che tutti, anche se in misura minore, ricordano e pensano per immagini prima che per caratteri. Se ad esempio uno cerca di pensare per intero una frase complessa (e neanche tanto) e di vederla come fosse scritta, per poterla correggere, si accorge che dopo quindici-venti parole non riesce più a vedere l’inizio. Eppure spesso si scrive di getto un testo lungo, come se fosse la descrizione di un’immagine, anche se è piuttosto astratta. I caratteri sarebbero teoricamente più economici delle immagini ma il cervello continua a usare quelle, e in fondo tutti i vecchi libri di tecniche mnemoniche suggeriscono di trasformare le parole in immagini per ricordarle più facilmente. Epperò la memoria della parola, se è più faticosa, è anche più duratura, perché più povera: infatti di un numero sempre maggiore di cose ci accorgiamo di ricordare solo il nome. Al riguardo Spallanzani notava:
“La gente non passa il tempo a verbalizzare i suoi pensieri… dice le cose ma non le verbalizza prima in mente. Chi lo fa inizia per forza a pensare agli universali. Il che non succede ascoltando gli altri, perché se pochi verbalizzano i propri pensieri, nessuno verbalizza quelli degli altri. In pratica si fa solo quando si legge. Perciò riflettere significa essenzialmente leggere se stessi” ***.
Il paziente di Lurija quindi in un certo senso aveva una mente primitiva e agiva a ragione, perché i puri sinonimi non dovrebbero esistere e l’atto di assimilare le cose sulla base solo di alcuni elementi non è un procedimento naturale ma viene appreso con grande fatica durante l’infanzia e la maggior parte della gente, sebbene a un livello diverso, continua per tutta la vita a distinguere nettamente cose e parole che una certa cultura mette più o meno sullo stesso piano. Per buona parte delle persone di una certa età la strutturale categoriale del mondo è assai lasca e la società dell’immagine contribuisce a far regredire il pensiero verso forme di minore astrattezza, da cui la netta impressione che un sacco di gente non capisca un cazzo
Šereševskij aveva anche il problema di come dimenticare. Quando si esibiva memorizzando al volo tabelle di numeri rischiava sempre che dietro l’immagine della tabella attuale riemergessero quelle delle tabelle precedenti, confondendolo. Il suo metodo era sorprendentemente simile a quello di una macchina: nel pensiero contrassegnava le vecchie immagini come “da ignorare”. Faceva così pure il dos, che quando cancellavi un file modificava solo il primo carattere del suo nome, senza darsi la pena di azzerare fisicamente tutti i byte. Questo sistema così economico potrebbe essere stato scoperto dalla natura prima che dall’uomo e spiegherebbe come mai certi ricordi riaffiorano improvvisamente: le configurazioni fisiche del cervello non vengono modificate ma si taglia solo l’accesso a quel settore. Siccome però l’indicizzazione del cervello è molto più complicata e ramificata, a volte uno stimolo trova un’altra strada per quella stessa struttura, e la rosa risorge****.
Leggendo di Šereševskij viene spontaneo pensare a Funes, e infatti un lettore ci segnala che in un articolo del 1976 intitolato “Una scienza romantica: ritratti non immaginari” Lurija torna a parlare del suo paziente e cita “Funes the memorial” di Borges, aggiungendo che il racconto “ripeteva alcune delle osservazioni che io avevo riportato a proposito di Seresevskij”.
Il problema, nota il lettore, è che “Funes” è del 1944, mentre il libro di Lurija su Seresevskij è stato pubblicato vent’anni dopo, nel ’65. È vero che le osservazioni sul paziente erano cominciate trent’anni prima e quindi è possibile che fosse già stata pubblicata qualche notizia da cui Borges poteva attingere, ma tutto fa pensare che il terribile vecchio abbia invece previsto quel che in un certo senso era inevitabile, e cioè che un uomo dalla memoria sovrumana sarebbe quasi incapace di pensiero astratto.
Va pure detto che nella traduzione italiana dell’articolo di Lurija il titolo del racconto di Borges è sbagliato. Sin dalla prima edizione inglese di Finzioni, del 1952, Funes el memorioso è “the memorious” e non “the memorial”. Nelle edizioni inglesi del testo di Lurija il titolo è corretto e quindi probabilmente si tratta di un errore del traduttore italiano, ma la forma “the memorial” non è sconosciuta sul web: quattro o cinque libri recenti la ripetono e non è chiaro se sia un errore loro, se lo riprendono da Lurija o se, con Lurija, si riferiscono davvero ad una magari rara edizione con il titolo errato.
Lasciamo questo piccolo dubbio per i lettori più che abili.
Note
* Incidentalmente, il professor Stuffenbau fu un pionere dell’effetto placebo: iniettava farmaci veri nei manichini dell’Upim e notava che spesso non producevano nessun effetto.
** Si legga ad esempio questo frammento da “Raccontalo alla cenere“, p. 37:
“Ricordi un pomeriggio di vent’anni fa (era pomeriggio?), il sentiero, un muro di tufo, un albero strano, una persona, il suo viso, i suoi occhi. Di che colore erano? Non il nome del colore, quello lo sai, ma proprio la tinta, riesci a rivederla? Eppure sembrava così importante. Ma anche la forma del viso, del naso, delle labbra, la conosci ma non la vedi, sicuramente la riconosceresti, pensi, eppure riesci solo a descriverla con parole generiche. Un albero strano, il suo verde non meglio precisato, un viso languido e grave, la luce che potrebbe essere del mattino o della sera, tutta la scena come un album da colorare e poi come una semplice descrizione, ogni passaggio dalla memoria agli occhi le ha tolto qualcosa, l’ha consumata, bruciata e la cenere si è disposta sul foglio formando una parola, come accade per le scritture invisibili. Adesso non ti resta che bruciare il foglio.”
Sullo stesso punto, e quasi con le stesse parole, un brano diaristico dal “Taccuino dell’insegnante assenteista“, appendice n.1:
“Accanitamente rivedi in sogno (ma non sogni, sei già sveglio) un frammento insignificante della scena che vorresti ricordare, un’inquadratura periferica, qualcosa che avevi appena notato. Ti basterebbe girare la testa di pochi gradi per vedere di nuovo ciò che desideri ma la piccola sequenza è fissa, come al cinema non puoi guardare fuori dal rettangolo luminoso. La scena si ripete e si ripete, questo stranamente lo ricordi come immagine e nonostante le ripetizioni nella tua mente non si semplifica, non si deforma né si appiattisce, resta identico dopo tanti anni e ciò deve avvenire perché tu non lo guardi davvero, non lo usuri perché non ti interessa. Questa immagine così chiara e così inutile è quasi il contrario di ricordare, serve solo a dirti per l’ennesima volta che la scena principale è persa. Come ritrovare un solo frammento dell’antico arazzo, un brandello splendente di cielo conservatosi vuoto e intatto, una presa in giro.”
*** L’Elia era anche convinto che il cervello moderno esistesse solo da quando esiste la scrittura. Il cervello fisico, non la mente come concetto. Intuizione che sembra oggi confermata.
**** “rosa che risorgi dalla cenere tenue
per virtù de la alchimia…
giovane fiore platonico,
eterna immarcescibile rosa”.
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