Il giuoco che non mai finisce

Maria Caterina Cicala (nomen etc) ha curato per Sellerio una raccolta di 49 ricordi di infanzia incentrati sul gioco. Non ci sono solo scrittori ma anche scienziati (forse i più deludenti) e politici (che ci tengono a mostrarsi predestinati: Churchill giocava coi soldatini, Hitler leggeva storia militare).

gioco

Diversi autori ricordano il gioco del “facciamo che”: Teresa d’Avila giocava alle “monachine”*, Tolstoj a Robinson (Robinson Suisse) e a fare il cocchiere, Gide aveva un amico immaginario, Jung al sacerdote del fuoco, Sartre a fare lo spadaccino, Amado il pirata. Uno dei racconti più noti è quello di Tolstoj, riportato anche in un’altra forma, che oltre a sprigionare nostalgia costituisce un punto nodale nel passaggio dal “facciamo che” al suo erede moderno, il gioco di ruolo:

[…] “Facciamo Robinson”.
“No, è noioso…”, disse Volodja, sdraiandosi indolentemente sull’erba e masticando delle foglie. “Eternamente Robinson! Se proprio volete giocare, fate piuttosto una capanna!”
[su insistenza della ragazza Volodja acconsente]
La condiscendenza di Volodja ci fece ben poco piacere, mentre il suo aspetto indolente e annoiato distruggeva tutto l’incanto del gioco. Quando ci sedemmo per terra e, immaginandoci di andare a pesci, cominciammo a remare con tutte le forze, Volodja rimase con le braccia penzoloni, in un atteggiamento che non aveva nulla di somigliante all’atteggiamento di un pescatore. […] Quando, immaginandomi di andare a caccia, con un bastone sulla spalla, io mi dirigevo verso la foresta, Volodja si sdraiava sulla schiena, inarcava le braccia sotto la testa e mi diceva che era come se camminasse anche lui. Quei modi e quelle parole, raffreddando il nostro gioco, erano estremamente antipatici, tanto più che era impossibile non convenire in fondo al cuore che Volodja si comportava da persona seria.

Volodja si annoia e ostenta la sua noia, anche nel tentativo di apparire più adulto. Tolstoj ricorda quando anche lui partecipava al “facciamo che siamo in carrozza” e commenta che se uno si mette a ragionare davvero, non si fa nessun gioco.

Ma in realtà c’è un’alternativa. Il gioco di Robinson è arrivato al limite perché imita goffamente la realtà ed è inevitabile che prima o poi qualcuno pensi “questa sedia non è una carrozza, questo bastone non è un fucile, smettiamola o almeno costruiamo una capanna vera“. Crescendo diventa più difficile sospendere l’incredulità di fronte alla palese smentita dei fatti.

Invece dire “vado a caccia nel bosco”, se uno lo dice col tono giusto, non fa scoprire rapidamente il gioco. Ancora una volta la parola è più potente e insinuante dell’immagine, il verbo più dell’imitazione e le parole di Volodja “fai conto che stia camminando anch’io” possono essere la fine di questo gioco e l’inizio del gioco di ruolo, in cui i partecipanti si limitano appunto a descrivere o indicare le azioni dei loro personaggi, senza mimarle. Il gdr quindi non rientra nella mimesi ma ha più a che fare con l’agon e, allo stesso tempo, con la vertigine: una vertigine puramente mentale. Il passo successivo è in un altro brano dell’antologia. Scrive Kierkegaard:

Quando Giovanni qualche volta gli chiedeva il permesso di uscire, ne otteneva quasi sempre un rifiuto; in compenso, però, il padre qualche volta gli proponeva di passeggiare su e giù per la stanza tenendolo per mano. A prima vista sembrava un magro compenso, ma, come l’abito di fustagno, nascondeva un tutt’altro contenuto. Accettata l’offerta, egli lasciava Giovanni completamente libero di scegliere dove sarebbero andati. Essi uscivano allora dalla porta della città, dirigendosi verso un castello dei dintorni, o fino alla spiaggia, o bighellonavano per le strade, sempre a piacimento di Giovanni perché il padre era capace di tutto. Durante quest’andar su e giù per la stanza, il padre raccontava tutto ciò che essi vedevano; salutavano i passanti, le vetture correvano con strepito assordante e soverchiavano la voce del padre; le frutta delle fruttivendole sembravano più invitanti che mai.

Anche se c’è ancora una piccola parte di imitazione (il passeggiare), il gioco è diventato quasi esclusivamente verbale e il padre è il primo master. Solo con le parole evoca il mondo e lascia che sia Giovanni a decidere la direzione, come in una sorta di racconto a bivi. Ma non solo:

Quest’arte magica del padre, Giovanni la imparò ben presto. Ciò che prima non era stato che un semplice giro epico, divenne presto drammatico: essi cominciarono a parlare mentre camminavano. Se prendevano le vie ben note, si sorvegliavano a vicenda perché non fosse omesso alcun particolare. Se la strada era sconosciuta a Giovanni, egli lavorava di fantasia, mentre la straordinaria inventiva del padre era in grado di dare forma a tutto, di usare ogni desiderio del bambino come un pezzo del dramma che si stava svolgendo.

Ora se camminando verso il castello incontrassero un goblin, il gdr classico ci sarebbe tutto. Davvero è difficile aggiungere qualcosa a questa descrizione dell’opera di un master: mantenere la coerenza di ciò che è noto, inventare il nuovo, rappresentare tutto solo con le parole, cambiare l’illusione consensuale in base ai desideri del giocatore: letteralmente demiurgico. E infatti:

Per Giovanni sembrava che il mondo sorgesse dalle loro conversazioni; come se il babbo fosse Nostro Signore, ed egli il suo beniamino che avesse il permesso di mescolare le sue pazze idee a piacimento.

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Il gioco di ruolo classico, quello che si faceva al massimo con carta e matita, oggi è stato quasi sostituito dai giochi per computer, con la loro volgare grafica sempre più pixelosa della parola, o dal gioco di ruolo dal vivo, che in realtà è un passo indietro verso la mimesi puerile di Tolstoj, anzi peggio, verso la “capanna vera” di Volodja (tra parentesi, dal giocare a fare i soldati fino alla baruffa vera e propria non c’è molta distanza, come dimostra il racconto di Fred Uhlman e la guerra degli adolescenti per difendere una trincea “vera” costruita in mezzo al quartiere).  La Fondazione, per ragioni anagrafiche e ideali, continua a preferire il padre di Giovanni e il suo gioco infinito.

Infine, la Fondazione vuole ringraziare la Sellerio per i suoi libretti maneggevoli, così periferici, riposanti, viene da dire estivi, che si finiscono in un’ora e, vantaggio non trascurabile, si trovano spesso sulle bancarelle per un euro, tranne ovviamente quei pochi che facevano proprio cagare tipo Montalbano e quindi sono andati a ruba.

* Non c’entra del tutto ma dobbiamo per forza trascrivere questo bellissimo ricordo di Teresa:

“Nel leggere i martìri che le sante avevano sofferto per Dio, mi sembrava che comprassero molto a buon mercato la grazia di andare a godere di lui, e desideravo ardentemente di morire anch’io come loro, non già per l’amore che mi sembrasse di portargli, ma per godere presto dei grandi beni che leggevo esservi in cielo. E stando insieme con questo mio fratello, entrambi cercavamo di scoprire che mezzo potesse esserci a tal fine.
Progettavamo, così, di andarcene in terra di mori, a mendicare per amor di Dio, nella speranza che là ci decapitassero, e credo che il Signore ci avrebbe dato il coraggio, in così tenera età, di attuare il nostro desiderio, se ne avessimo avuto i mezzi, senonché l’aver genitori ci sembrava il più grande ostacolo”.

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