Gli aneddoti sulla vita di Philip Dick sono più noti e probabilmente meglio compresi della sua opera terrena. Dicono di lui che, mollato dall’ennesima donna, decise di uccidersi inghiottendo tutti i tranquillanti che aveva in casa, e non erano pochi. Dopo aver compiuto l’insano gesto gli venne però in mente che aveva anche una torta al cioccolato in frigo: pensò che ormai mangiarla non poteva più fargli male, quindi se la strafogò tutta, si sentì male e vomitò. Ciò gli salvò la vita, per questa volta.
Fragile e febbrile Philip Dick! Di pochi uomini ci dispiace così tanto la morte.
Ma, per quanto questa sua sublime noncuranza ci colpisca ogni volta, bisogna cercare di evitare l’immagine stereotipata dello scrittore drogato e folle, dell’idiota divino, ispirato dal raggio rosa. Quasi sicuramente Dick non era affatto uno squilibrato, anzi i suoi migliori romanzi mostrano sempre una tendenza per così dire speculativa e razionale. I suoi personaggi sono spesso degli accaniti ragionatori, il che ci porta erroneamente a considerarli dei paranoici. Quando Dick è irrazionale, lo è in genere per stanchezza: come negli sfoghi dei suoi personaggi, che di punto in bianco fanno o dicono qualcosa di assolutamente insensato e in genere autodistruttivo, e quello che dicono o fanno di solito lo presentano come la verità, finalmente la verità.
Ora per tradire subito i nostri propositi raccontiamo un altro noto aneddoto: dopo aver vinto inaspettatamente il premio Hugo, che era una sorta di razzetto su un basamento di legno, Dick lo usò per sedare una rissa, e lo ruppe. Come se uno, per dire, rompesse il telegattone. Come si fa a non amare quest’uomo?
E dire che quel premio l’aveva vinto per “La svastica sul sole“, da cui recentemente hanno tratto una serie televisiva che non abbiamo visto. Il nostro scopo iniziale, in effetti, era parlare appunto della Svastica, che molti considerano il suo capolavoro. Noi, personalmente, no.
Resta tuttavia un libro notevole, e anche piuttosto anomalo. A partire dalla strana dedica alla moglie (senza il cui silenzio, dice Dick, il libro non ci sarebbe stato), dalla presenza di ringraziamenti, dall’indicazione delle fonti. Se non sbagliamo, questo è l’unico caso in cui un libro di Dick contiene tutti questi elementi. O li ha aggiunti dopo il premio, o in qualche modo intuiva che questo libro sarebbe stato considerato in modo diverso dagli altri.
Ora egregio lettore se non hai letto il libro forse ti conviene non andare avanti, perché potresti apprendere cose che non ti piacerebbero:
Nell’universo parallelo de “La svastica sul sole” le discussioni finiscono sempre con una reductio ad internettum.
Come è noto, la vicenda è ambientata in un’America degli anni ’60 che ha perso la seconda guerra mondiale. Germania e Giappone si sono spartiti il mondo: la svastica regna sulla costa orientale americana, in Europa, Russia, Africa, ha raggiunto la luna e adesso punta a marte. Il Giappone controlla la Cina, il sudamerica, il pacifico e la costa occidentale degli Stati Uniti, dove è ambientata la storia. Mentre i tedeschi appaiono quasi caricaturali nella loro mostruosità (hanno svuotato il mediterraneo per ricavarne terre coltivabili(1), hanno applicato la soluzione finale all’intera Africa), la dominazione Giapponese è molto più umana e gli orientali hanno anche sviluppato una curiosa fascinazione per l’artigianato americano. Quasi tutti i personaggi producono(2), vendono o comprano armi della guerra di secessione, vecchie figurine del baseball, fumetti degli anni trenta. Una delle scene più belle e comiche del libro è quella in cui il sig. Tagomi, della missione commerciale giapponese, regala a un industriale svedese un prezioso orologio di topolino.
Già qui si vede la genialità di Dick. Il mondo alternativo dove la Germania ha vinto non era un’idea nuova, mentre è stramba ma realistica l’attenzione dei vincitori per il glorioso e incompreso passato americano. Dick descrive con grande precisione lo stato d’animo dell’antiquario Robert Childan, che aspira ad ottenere l’amicizia dei giapponesi per questioni economiche, ma anche per sincera ammirazione. I Giapponesi, nota Childan, collezionano vecchie figurine americane e però non sanno nemmeno che venivano usate per giocarci: questo è il loro modo di appropriarsi di una cultura(3). Durante una cena con una coppia di ricchi giapponesi Childan cerca più volte di esprimere la sua approvazione per la vittoria dell’asse e però si accorge subito di esagerare e di creare imbarazzo, e si accorge anche che nonostante siano così belli e pacifici lui odia profondamente i vincitori, che in fondo considera solo scimmie, incapaci di pensiero creativo(4).
Bisogna ammettere che è piuttosto strano trovare una scena del genere in un romanzo di fantascienza, per di più basato su premesse così potenti. Uno si aspetterebbe azione, spionaggio, violenza, nonché un divertito anacronismo, e tutti questi elementi in parte ci sono, ma per noi rimangono secondari, e l’autore ha avuto un notevole coraggio a mantenerli secondari.
Un altro dei personaggi principali è Frank Frink, un operaio di origine ebraica che produce falsi. Dopo aver litigato col suo capo, lo ricatta per avere i soldi necessari a mettersi in proprio. Lui e il suo collega Ed vogliono produrre oggetti nuovi, gioielli fatti a mano, e finiscono per proporli anche a Childan. In seguito Frink verrà arrestato su denuncia del suo capo e Tagomi, senza sapere nulla di lui, lo salverà dalla morte negando ai nazisti l’estradizione sulla costa orientale.
Lo stesso Tagomi, poco prima, ha usato un’antica pistola comprata da Childan per fermare dei sicari nazisti. L’uccidere l’ha sconvolto al punto che il giorno dopo cerca di restituire la pistola a Childan: ma l’antiquario non è interessato, anche perché sa che quella pistola potrebbe essere un falso, magari proprio uno di quelli prodotti da Frink, e quindi propone a Tagomi di comprare in gioiello (creato proprio da Frink).
In una delle scene più strane del libro, Tagomi vaga per il parco con questo grumo di metallo comprato da Childan, e mentre osserva il sole che si riflette sul metallo ha quasi l’impressione di comprendere una verità: tuttavia un poliziotto lo interrompe con una domanda stupida e Tagomi, disperato, si mette a cercare un tassì a pedali per tornare a casa. Ma non lo trova: vede invece una strada mai vista, entra in un bar e i bianchi seduti al bancone non gli cedono il posto. In qualche modo, attraverso lo strano gioiello, Tagomi è passato dall’altro lato: nel mondo in cui l’asse ha perso la guerra.
Che confusione, che insensatezza. Le storie di Childan, Tagomi e Frink si intrecciano come in una sorta di sogno. E non è neanche finita perché a margine corre la storia di Juliana, la moglie di Frink, e dell’uomo nell’alto castello, colui che ha scritto un romanzo in cui Germania e Giappone hanno perso la guerra.
(1) E questa non è un’invenzione di Dick: il progetto fu davvero presentato ed è stato seriamente discusso fino a non molti anni fa.
(2) Già, producono, perché naturalmente in un libro di Dick non poteva mancare l’elemento del falso. Dopo la guerra in America è nata addirittura un’industria che riproduce vecchie armi, vecchi mobili, finte locandine, a beneficio degli ingenui vincitori. C’è anche un’esplicita riflessione sul problema dell’aura degli oggetti, che però è affidata a due personaggi minori, che spariscono subito, a riprova della costruzione imperfetta del romanzo.
(3) Ci viene in mente che anche in 1984 c’è un negozio di antiquariato, ma lì il passato è una difesa reale (per quanto fragile: anzi in effetti è proprio una trappola), mentre in Dick il passato è proprio finto (il che, per converso, non lo rende una difesa più debole: semmai più forte!). E poi c’è la faccenda delle cose piccole, gli oggetti insignificanti che dovrebbero contenere qualcosa di indistruttibile: vecchi fumetti, vecchie armi, tutta roba che in fondo è un giocattolo, e ci sono molti racconti di Dick sui giocattoli, sui fumetti (es. Mr. Lars) e lui di fatto è l’inventore di tutti i giochi in cui tu non sei l’eroe, ma una sorta di dio. Incidentalmente, questa abitudine di mummificare il passato è spesso presente nella cultura americana, persino più che nella nostra. Superman, per dire, ha tutto il suo mondo miniaturizzato; le copie fedeli dei documenti originali della vendita di Manhattan si vendono ancora adesso a New York (e sono finti, sono scritti in inglese mentre l’originale era in olandese). Gli americani non si fanno troppi scrupoli filologici nel ricostruire il passato, che è un segno di amore. Per altro, tutta la roba che nel romanzo si propone ai giapponesi oggi si vende realmente agli europei: tutti quelli che vanno in america si estasiano per oggetti che se fossero veri (e di norma non lo sono) non avrebbero più di pochi anni. L’America riesce a mitizzare il passato prossimo, a volte anche la contemporaneità, e come disse qualcuno tende a realizzare e presentare l’ideologia in forma di mito, e quindi a creare un’utopia degenerata.
(4) Questi sentimenti contraddittori, che sono palesemente di Dick, rappresentano uno dei suoi temi ricorrenti: il misto di rabbia e invidia che il piccolo commerciante o artigiano prova nei confronti dei ricchi e potenti
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