Ci sarebbe piaciuto apprezzare la Trilogia di New York di Paul Auster, ma così non è stato: forse il problema è che già in partenza speravamo di trovare un nuovo grande racconto, e meglio ancora un nuovo grande autore. C’erano tutte le premesse: La città di vetro, il primo libro della trilogia, comincia infatti con uno scrittore che per uno strano cortocircuito si trova ad indagare sulla torre di babele, sulla caduta, sulla lingua perfetta, insomma sui nostri argomenti prediletti. Fino a pagina 53 abbiamo letto con vero piacere, una cosa ormai rara. A pagina 77 iniziavamo però a dubitare, e poi è stato sempre peggio; l’abbiamo finito comunque, perché troviamo miserabile abbandonare i libri.
[Inciso: bisognerebbe chiedersi “se non ci è piaciuto, perché parlarne?”. Lodare e denigrare sono operazioni emotive, che non hanno nulla a che fare con l’esercizio della lettura: quindi abbiamo deciso che ne parliamo per puro caso, solo perché a pagina 25 abbiamo trovato questa frase:
“Vedo la speranza dappertutto, anche nel buio,
e forse alla mia morte diventerò Dio”
Anche Elia Spallanzani aveva scritto più o meno la stessa cosa, il che significa che o lui e Auster l’hanno letta da qualche parte, o che è una necessità del pensiero. Per quanto ricordiamo, il primo ad averla pensata, e nella forma più bella, fu un imperatore romano: con infinita esaltazione, con tristezza, disse sotto il coltello: povero me, credo che sto per diventare un Dio. Fine inciso]
Il protagonista de la città di vetro si chiama Quinn, fa lo scrittore di gialli e usa lo pseudonimo di William Wilson, che è il nome di un personaggio di Poe.
Quinn però richiama alla mente Quain, lo scrittore fittizio dell’esame dell’opera di herbert quain, di Borges. Nelle prime righe di questo racconto si critica l’accostamento tra Quain e Agatha Christie, cui dobbiamo le dimenticabili storie di Harley Quin, l’investigatore fantasma, e probabilmente il nome stesso di Quain.
Il primo libro attribuito al falso Quain si intitola The God of the Labirinth e ne L’anno della morte di Ricardo Reis di Saramago, il protagonista (eteronimo di Pessoa) ruba sul piroscafo che lo conduce a Lisbona proprio The god of the labyrinth: ora, in portoghese Quain suona come la parola “chi”, per cui l’autore diventa “Herbert chi?” ed il romanzo, un giallo combinatorio, che più volte Reis tenterà di leggere fino in fondo senza mai riuscirci, è in realtà anch’esso fittizio. Quindi il doppiamente finto Reis sta leggendo un libro ancora più finto*. Dal canto suo, il Quinn di Auster non si perita di spacciarsi per Paul Auster, investigatore privato, e poi lo incontra pure e scopre che in realtà fa lo scrittore e si dedica a un saggio sul Don Chisciotte, dove sostiene che l’autore fittizio dell’opera, il moro Cide Hamete Ben-Engeli, è in realtà lo stesso Chisciotte, che ha scritto in arabo la sua storia perchè Cervantes la traducesse.
Uno spappolamento. E non c’è fine, non c’è fine, perché il Quinn di Auster prima di svanire scrive le sue impressioni in un taccuino rosso e il protagonista de La stanza chiusa, l’ultimo pezzo della trilogia, riceve dall’asserragliato Fanshawe un taccuino rosso, che è il libro definitivo, e lo strappa; ma questo personaggio confessa di essere anche l’autore della trilogia e il nome fittizio di Fanshawe è Henry Dark, che è anche il nome del personaggio fittizio inserito da Peter Stillman ne “Il Giardino e la Torre“, nella Città di vetro. Stillman vuol dire “ancora uomo” e Fanshawe è un personaggio di Hawthorne e i personaggi di Fantasmi, il secondo libro della trilogia, parlano di Wakefield, che è un racconto di Hawthorne che è affine a Bartleby, di Melville, che è affine al silenzio…
Attraverso tutti questi nomi, il libro di Auster non si limita ad illustrare il caos ma lo produce… ed è stupido, inesorabilmente stupido e brutto, disperante…
[Inciso: “soprattutto lo attanagliava il problema del Male”. Hawthorne, come Melville, come Dick, come il magnifico Russo, come Borges, come Gadda: per tutti loro era essenziale il problema del male: la giustificazione. La teodicea.
Perchè dio tenta gli uomini con l’albero del bene e del male? perchè distrugge la torre di Babele? Per oscura malizia: e se ci fece deboli, fu per poterci vessare… ma di tutti solo Borges risolve efficacemente il problema, con una citazione. Ciò dipende dal fatto che era morto**: la sua superiorità dipende… fine dell’inciso]
Diversamente dai maestri, per Auster il male non è un problema, ma una circostanza. I suoi personaggi hanno tempo anche per andare al bagno o al cinema, anche per scopare. Questa è forse la cosa che più ci ha offeso della trilogia, in particolare dell’ultimo libro, il più lungo, e il peggiore: l’introduzione del sesso nella storia. Sono solo poche pagine ma stridono terribilmente.
Con questi romanzi si distrugge il racconto. Auster non è certo il primo a farlo, di sicuro non è il migliore, eppure è letto! ammirato. E’ oggetto di tesi di laurea, di interpretazioni diligenti quanto vane. E’ un civile e rassegnato… leggibile araldo dello sconforto***… perchè se non esiste il racconto, il male non ha più giustifica.
Auster però non deve vincere: il lirismo deve vincere.
il Santo, sia benedetto il Suo Nome, tesse disgrazie
perchè agli uomini non manchi di che cantare.
Note
* e non è neanche finita, perché
1) l’ultima opera del Quain borgesiano è una raccolta di otto scritti, e guardacaso il giardino dei sentieri che si biforcano, prima di trasformarsi in finzioni, conteva appunto otto scritti, quindi Quain è Borges.
2) Ma Quain è anche Queen, Ellery, come nota quest’altro individuo. Dal punto 1) deduciamo che Saramago, quando nell’intervista dice “Tra le opere che Borges ha scritto, e quelle che ha attribuito a Herbert Quain, non c’è invece nessun tipo di dialogo”, dice una cazzata. Dal 2), che all’acribia e all’onanismo non c’è limite.
** contrariamente a quanto si dice in giro, Borges non morì nel 1986 in un albergo di Zurigo, ma al principio del 1939, nel sud: come racconta lui stesso ne Il Sud sotto lo pseudonimo di Juan Dahlmann. E racconta appunto che, avido di esaminare una copia delle mille e una notte, salì di fretta le scale e qualcosa lo colpì alla fronte: la ferita si infettò e da quel momento tutte le cose furono atroci: “in quei giorni Dahlmann scrupolosamente si odiò”. Sfuggito miracolosamente alla morte, durante il viaggio verso la casa avita si lasciò trascinare in una rissa assurda, in cui morì per semplice puntiglio. Il che ci sembra sublime.
*** il poco di Auster che abbiamo letto in inglese suona decisamente meglio. Non si tratta però di una colpa del traduttore: semplicemente, in inglese abbiamo riconosciuto più in fretta le citazioni perché le conoscevamo già in quella lingua.
**** Lo scrittore postmoderno non deve mai dimenticare queste parole di Spallanzani: “il romanzo automatico che stava ‘scrivendo’ era lungo oltre dieci milioni di parole, e ambiva ad ascriversi al novero di quelle gigantesche opere paradossali che torreggiano sulle vie maestre della storia della letteratura terrorizzando l’incauto viandante”.