La Fondazione siede in Bomarzo, onorando il nome della casa editrice fondata dal Nostro e prematuramente scomparsa per irregolarità fiscali (mai chiarite). Spallanzani provava per il luogo un misto di attrazione repulsione, come dimostra una lettera spedita a sua zia Luisella nel 1981 e pervenutaci quasi integra, salvo qualche frase cancellata dall’ava e qui sostituita da esterischi (oscenità cassate dalla pudibonda? dolorosi riferimenti personali? purtroppo la zia è cenere da tempo e forse non lo sapremo mai).
Al solito si nota che la lettera è composta in larga parte da pseudo citazioni e comunque ricorda molto lo stile di certi autori amati-odiati: è anch’essa, quindi, un’accozzaglia un po’ grottesca e non va intesa, ahem, alla lettera.
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Con le bave di panico di questi giorni, una delle soluzioni che più seduce è spostarsi. Muoversi, muoversi, alla ricerca di aria fresca! ; che e’ pur sempre semplice differita. Ma per un giorno si può fingere di non appartenere a nessun luogo, ed in definitiva a tutti, e di nuovo a nessuno. All’uopo, alcuni lochi saranno più adatti di altri. Bisogna cercare un posto che già di per se significhi qualcosa di assai sfuggente, che sappia già di fuga. Ieri sono tornato a Bomarzo.
Sembra che tutti siano andati almeno una volta al parco dei mostri di Bomarzo ; e solitamente l’età della loro visita è compresa tra i cinque e i dieci anni. Al ritorno il turbamento e la delusione li accompagnano di pari passo (mostri, ma di pietra, che non si muovono e non urlano. Muschio, e non colore; nessun contatto con la natura, e nessun contatto con la leggenda). Il ricordo di una stranezza è lievemente più duraturo, tanto che a me, alla ricerca del ****** mai avuto, è venuto subito in mente.
La storia è piutosto banale, sennonché di una banalità che appartiente a un secolo postumo a quello della nascita. Il Boscho Sacro di Bomarzo (da scriversi rigorosamente così) è uno dei giardini barocchi più interessanti d’Italia e però viene concepito e costruito ancora in pieno rinascimento. Un gesto di coerenza estrema, per un parco mostruoso costruito per distrarsi, per gonfiarsi di irrealtà quando la vita ha deluso, o almeno si vuole assumere la posa del ******.
Pier Francesco Orsini, recita la guida, fello construrre per commemorare la morte della moglie: bugia innocua, ma patente. La memoria dei morti è lugubre, non grottesca, e il lutto è un’espressione della vita, non dell’artificialità. Difficile ignorare la realtà dietro a questo parco pieno di solecismi: la noia di un aristocratico potente abbastanza da essersi stancato del potere, e così circondato dalla natura e dalla vita che ne provava disgusto.
Lo immagino: con il cadavere della moglie accanto (amata o disamata non monta), lo coglie un conato di irrealtà. Egli non si ridurrà come un Borgia, scavando nella depravazione pur di sconfiggere la noia (idea aborrita più per spocchia che per autentica integrità morale). No: compirà qualcosa di ben più stupefacente: fa chiamare l’architetto Pirro Ligorio (uno dei completatori di S. Pietro ; ma questo è un dato che rimane sospeso, e non sembra riguardare il creatore di quello che ho visto ieri), e gli chiede di costruire un parco immerso nella natura, ma che della natura faccia scempio. Non distruggendola, ma annullandola, piegandola alla divertita reinterpretazione di miti classici e mostruosità medioevali.
Ligorio era forse il più adatto per quest’opera, con la pubblicazione del suo “Libro delle antichità”, ma credo che il suo fosse un interesse tutto artistico ; in fondo la scoperta della grottesche non era ancora sorpassata… Orsini invece gli comanda un lavoro più ampio e atroce, “unico al mondo” come pomposamente annunciano i cartelli nel parco. Forse qualche moto di protesta nel suo animo c’è stato, ma ha saputo sedarlo.
Sotto l’indicazione di Orsini, Ligorio ha costruito una casa pendente che si affaccia su di un tetro ; un drago, immane anfittero di pietra attaccato da un lupo, un cane ed un leone. Una echidna lubrica ed una multicomposita furia che si fronteggiano, mostruosità parallele che si annullano e si moltiplicano. Un gigante dalla bocca spalancata che nasconde una sala da pranzo per nobili accaldati, un colossale Nettuno e un giovane Ammone, una tartaruga dal guscio labirintico, con in cima una statuetta di donna, ed in cima ad essa un grande vaso vuoto ; un pegaso, un cerbero, l’elefante di Annibale, un lungo passeggio incorniciato da pigne e ghiande di pietra. Tutto enorme, tutto sfacciatamente falso, affidato ad un’esecuzione rozza ma possente, che non si cura di rendere gli oggetti falsi, quanto di farli artificiali. E la natura, umiliata, si limita a fare da sfondo, a rendere più pittoresca e credibile questa sfilata tra Plinio ed Ovidio.
Con i secoli il tempo e il verde si sono presi la loro vendetta : più di un gruppo appare sfregiato o invaso dai licheni. Ma, per un’ironia che Orsini avrà calcolato, ciò non fa che rendere tutto più mistico, svagatamente intollerabile. Le sfingi dal volto eroso, con frasi cinquecentesche che colano sui loro piedistalli, ora non sono più un’opera dell’uomo, ma sono lì da sempre, per empia partenogenesi. Tutto ciò andrebbe constatato in silenzio (come annuncia la prima lapide del giardino), ma esigenze commerciali implicano il contrario. Bene, perchè altrimenti gli effetti di questa accozzaglia di falsità mostruose sarebbe più forte, sulla mia anima. Invece si trova ancora il modo di ridere. Mi rimane il dubbio su chi sia più **********.
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