abbiamo visto la serie electric dreams. Temevamo il cagatone, essendo una serie rivolta al popolo, e invece bene o male si può vedere. Qualche appunto su singoli episodi:
Autofac: non male, però tradisce comunque l’idea originaria, e in un modo forse più fastidioso delle semplificazioni per gli ignoranti. Nel racconto le fabbriche sono inquietanti perché non sono intelligenti, mentre nel telefilm lo sono anche troppo. Inoltre manca il dubbio sulla giustezza del comportamento dei sopravvissuti. Puerili e inutili le scene di sesso.
Umano è: l’episodio è quasi uguale al (semplice e breve) racconto di Dick, nonostante gli elementi accessori siano tutti diversi (i personaggi sono anziani e non giovani, il marito è un militare e non uno scienziato, la terra è morente e non verde, gli alieni sono guerrieri e non sopravvissuti etc). Il problema è che il marito del telefilm è molto meno odioso di quello del racconto, e inoltre il processo finale è patetico e serve solo a dire esplicitamente quel che Dick giustamente lasciava implicito: cosa rende umani. Una resa scadente, che si salva solo grazie all’intensità della bellissima protagonista. Scene di sesso gratuite anche qui.
The commuter: non ricordiamo il racconto dal quale è tratto, deve trattarsi di un testo minore. L’episodio, comunque, si conclude in modo nettamente non dickiano. Mentre la prima parte, con la città inesistente e gli strani cambiamenti della vita del protagonista, appartiene al classico stile di Dick (e oggi appare addirittura banale, tante volte è stato copiato), nel finale c’è questa nobile ma non dickesca faccenda che è meglio una vita vera, sebbene piena di dolore, rispetto a una felicità illusoria. La puntata è anche toccante, sebbene un poco ricattatoria, e il protagonista è molto adatto, ma questa in definitiva non è una storia di Philip Dick.
La cosa padre: che dire… è fatto discretamente, anche considerando che il racconto è uno dei più tradizionali, ma mostra chiaramente un problema più generale: i racconti di Philip Dick spesso sono molto brevi, partono senza preamboli e concentrano l’azione in pochissimo tempo, mentre le puntate di “electric dreams” dovevano durare tutte cinquanta minuti. Di conseguenza, “la cosa padre” è stato gonfiato a 50 minuti e questo l’ha indebolito. Ad esempio, nel racconto non c’è nessuna informazione sul rapporto padre-figlio prima del fattaccio, mentre nell’episodio si perde un quarto d’ora mostrando padre e figlio che giocano a baseball o fanno campeggio. Allo stesso modo, la minaccia del racconto è concentrata su quel ragazzo, su quella famiglia, mentre nel telefilm diventa una minaccia globale. Il racconto prende una sola sera, il telefilm più giorni. Questo allungamento del brodo dipende solo dal mezzo: chi legge il racconto non ha bisogno di sapere che padre e figlio giocavano a baseball, anzi gli nuoce saperlo, perché così quel padre diventa una persona specifica e non IL PADRE, qualsiasi padre, e particolare tuo padre, la sua faccia nascosta. Ma questo forse lo può solo il linguaggio e non la volgare immagine.
Foster, sei morto: in molti episodi della serie gli attori sono bravi, ma la ragazza di “safe and sound”, Foster, è davvero notevole. La rielaborazione del racconto è intelligente, salvo per gli ultimi tre minuti, in cui lo sceneggiatore sente lo stupido bisogno di spiegare quel che si era già capito, eliminando per altro un’ambiguità che invece rendeva tutto più interessante. Il nucleo dell’episodio sembra quello del racconto originale, lo scontro tra un ragazzo che vuole solo essere come gli altri e suo padre che non si adegua a un mondo vile, al “compra o muori”, al vivere nella paura. Però, proprio perché più semplice e più realistico il racconto originale rimane più forte: il vero Foster non vuole il rifugio antiatomico solo perché ce l’hanno tutti, la sua non è solo angoscia perché si sente diverso ma vero e proprio terrore, il dimenticato terrore della guerra atomica: e suo padre non è solo ideologicamente contrario, è proprio troppo povero per comprarlo.
Il mondo di “Foster, sei morto” è molto più spaventoso di quello dell’episodio televisivo, in cui un governo crea finti attentati per tenere tutti sotto controllo: quello del racconto è un mondo in cui un uomo non può permettersi di non far soffrire suo figlio. E dietro non c’è nessun complotto, quello è semplicemente il mondo reale, della gente normale, delle persone comuni, nel suo orrore comune, nella sua inguaribile e squallida normalità.
Ma l’episodio più curioso è “Crazy diamond“. Non riuscivamo a capire su che racconto fosse basato (infatti non c’entra niente con “Sales pitch”, da cui sostengono sia tratto), eppure ci è sembrato decisamente Dickiano. È l’episodio più confuso di tutti, in alcuni punti è anche ridicolo e dozzinale e sembra composto da vari pezzi che non sono collegati tra loro, o da un insieme di sogni, ed è proprio questa sua stramba e oscura natura composita che fa pensare ai romanzi di Dick: la roba che marcisce in un giorno, le paratie di ferro sotto il terreno, una tecnologia affascinante e ripugnante insieme, le incongrue spruzzate di normalità (la polizza sulla vita) che così appaiono ancora più strane di tutte le altre stranezze, l’ambiguità e la natura demoniaca della donna (anche se non ha i capelli scuri), la musica… tanti frammenti di Dick mescolati senza particolare successo ma almeno con un po’ di coraggio, senza questa onnipresente paura di non essere capiti, senza lezioncina e compitini. Un episodio non bellissimo ma fedele, a modo suo, nello spirito.
Il fabbricante di cappucci: non ricordiamo granché del racconto da cui è tratto. L’ambientazione retrò non è male ed è indovinata la scena delle telepati usate come megafoni delle perversioni sessuali (sebbene anche qui il regista ceda alla viltà di spiegare cosa accade, nel timore che il suo pubblico sia stupido come si suppone sia il pubblico). Il problema è che la storia procede in maniera un po’ illogica (e non è l’illogicità di Dick) e il finale, per quanto giustamente negativo, è comunque solo lo specchio del banale finale positivo: non c’è niente di strano o illuminante in esso. Per questi motivi eravamo pressoché sicuri che il racconto originale fosse molto diverso, e andando a leggere le recensioni del racconto abbiamo avuto la conferma di quel che dicevamo riguardo a “la cosa padre”: chi ha letto il racconto dopo aver visto il telefilm si lamenta che la storia parte senza preamboli e senza spiegazioni, che i personaggi sono descritti in modo troppo sintetico e che lo sviluppo è troppo veloce e troppo breve. In sintesi, si lamentano del fatto di dover immaginare, se non proprio di dover pensare.
E questo ci porta alla fine, a Uccidi tutti gli Altri. Anche qui il protagonista è bravo, alcuni elementi dickiani ci sono (le pubblicità invadenti), ma l’idea del racconto è troppo spalmata e quindi si perde quel sapore di caffè bruciato dell’originale. Inoltre il racconto era a suo modo più sensato perché la trasformazione che colpiva quasi tutti era già avvenuta, nel tempo sempre concentratissimo dei racconti brevi di Dick: nel telefilm invece sembra che la trasformazione sia graduale e ancora in corso, per poi sembrare di botto e inspiegabilmente già avvenuta. Ad ogni modo, il punto è che gli Altri esistono davvero, ma sono dappertutto, sono anche qui: sono quelli che non sanno leggere un testo a meno che non gli mostri tutto, non gli spieghi tutto per filo e per segno, come a dei bambini. Gli Altri non siamo noi, sono loro, e sono la maggioranza. Bisognerebbe davvero ucciderli tutti.
P.S. Completiamo con gli ultimi due episodi, quelli che ci hanno colpito di meno: real life (asseritamente tratto dal racconto “un pezzo da museo“) e il pianeta impossibile (dal racconto omonimo). Real life è completamente diverso dal racconto, contiene un po’ di sesso lesbico piuttosto gratuito ed è basato sulla consueta domanda di Dick “questo mondo è reale?”, il che però non basta a renderlo davvero interessante, anche perché è difficile provare empatia per i protagonisti. Invece il pianeta impossibile sembra un miscuglio tra il racconto originale e uno di Bredbury: il suo finale sognante non è molto dickiano e, come in “umano è”, l’episodio si regge quasi solo sul volto dell’anziana protagonista.