Pidocchi del pensiero: contro la parola “gestire”

Una volta, quando per parlare con autorevolezza bisognava aver fatto le scuole veramente alte, veramente belle, come il liceo classico, il verbo “gestire” significava essenzialmente “fare gesti”. Si raccomandava moderazione nel gestire; di una donna si lodava la misura nel parlare e nel gestire. Caduta la società in mano ai meccanici, gestire è diventato un verbo tuttofare che si usa per amministrare, controllare, dirigere, dominare. Questo assorbimento del mondo e degli altri viventi nelle proprie membra, l’osceno proposito di “gestire una persona” come una mano inquieta che si tiene a freno mentre si racconta una sporca bugia… beh, prima che sbagliato questo è innanzitutto VOLGARE.

P.S. Come disse il lupo ad Atreiu, “è più facile gestire chi non crede in niente”.

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Un paese rovinato dalla non lotta di classe

Nemmeno a farlo apposta, ieri hanno trasmesso per l’ennesima volta “In nome del popolo italiano”. Nell’ultima scena il giudice, angosciato e disgustato dal carnevale che si scatena per una vittoria calcistica, decide distruggere le prove dell’innocenza di un imprenditore che per lui è il simbolo dell’Italia ladra, ignorante, cialtronesca e in definitiva orribile che gli sfila davanti.

In Italia non è mai esistita una lotta ideologica pura, un progetto diciamo coerente (nella sua inumanità) di eliminare il nemico di classe. Inclini al sentimentalismo, qui gli uomini hanno sentito più che capito un dolore per il mondo, una rabbia adolescenziale contro la palese ingiustizia, stupidità, bruttezza della società, forse soprattutto la bruttezza e volgarità, la bestiale buffonaggine che li feriva come una parte di vita sottratta a loro e risucchiata un vortice inguardabile.

Seri, cupi, diffidenti e amari, misantropi per incompreso amore di un oggetto basso, desiderosi di punire qualcuno che è già sfuggito troppe volte alla punizione, vendicatori innanzitutto di se stessi e delle proprie aspettative continuamente deluse, e quindi chiusi in un mondo infantile, di puri simboli.

Vendicatori che non esultano, anzi hanno la faccia disperata di chi per punire il suo nemico si strappa le viscere. Di nuovo questa nera pulsione, amore idealizzato di un’umanità che non esiste, mancanza di vera compassione, senso di una fine imminente di tutte le cose, bisogno di purezza che diventa bisogno di morte, antico male che si tramanda con le parole perché non è adatto a tramandarsi diversamente, una sola piccola idea che è contro la vita e ha assunto, grazie alle parole, la forma della vita, la sua incresciosa tendenza a perpetuarsi.

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Per la serie “la posta dei lettori”

Ci scrive Dagoberto Malcagato, lettore di vecchia data, per rimproverarci l’assenza di una chiara linea politica, estetica e dietetica.

Egregio Malcagato, non possiamo darti torto. Il fatto è che PUCCIOPPO ci lasciamo prendere dal linguaggio in sè e svolgiamo un discorso lungo parecchie linee possibili, finendo spesso per arrivare a conclusioni contraddittorie. Ma questo inane giocherellare coi discorsi non è quel che fanno, e con la massima serietà, anche i tuoi filosofi di riferimento, ossia “le solite puttane, dei soliti giri“? E allora perché rimproveri solo noi, che in fondo una morale l’abbiamo? Il fatto è, signor Malcagato, che non ti permetteresti di fare lo smargiasso con dei disonesti confusionari laureati dall’accademia e peggio ancora graditi al pubblico, mentre alzi la cresta con gli oscuri e genuini perplessi. E questo perché sei sostanzialmente un vile.

Cordiali saluti dalla Fondazione.

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Alberto Angela e la Sindone della Mucca Pazza

Film in preparazione dal 22 ottobre 2018.
La risposta italiana a Indiana Jones, un thriller che mescola azione mimica, scienza, religiosità, cultura ed enogastromia:
Alberto Angela e la Sindone della Mucca Pazza.

Sinopsi:
L’Alberto si aggira nottetempo tra i ruderi di Pompei. Sono due giorni che non riesce a trovare l’uscita ma nel frattempo ha scoperto un assegno postdatato del 79 dopo Cristo. Gioia e sconcerto sul suo viso: le dita tracciano in aria glifi rendendo superflua ogni parola.

Stacco. Ora siamo al Cern. Gli scienziati festeggiano la scoperta di un modo per farsi finanziare altri trent’anni di ricerche: primo piano del project manager tripudiante. Cartello: “stavolta gli diremo che cerchiamo la particella della Madonna!”.

Stacco. Ora siamo in Vaticano, senza alcun motivo. Un pubblico invisibile fischia le colpe della chiesa, ma non si sente nulla! Censura cattocomunista? No, è che il film è muto (tradizione+innovazione).

Stacco: interno giorno, ora l’Alberto è alle poste che cerca di incassare l’assegno di Pius Maximo Solone. Frecciata all’ignoranza del volgo: l’impiegata legge la cifra “LVI” e la scambia per un omaggio al Duge. Tutti i pensionati in fila abbracciano Alberto lodandone l’audacia.

Stacco, grande corteo antirazzista. Primo piano di maestra attivista col cartello “leghisti antropologicamente inferiori”. Provocatori di destra vorrebbero reagire ma dopo “antropo…” perdono il filo.

Stacco, doppio stacco! La trama filmica emerge nella sua purezza. Fotogrammi subliminali di Enrico Ghezzi che suona un bongo.

Intervallo biologico: popcorn di mais coltivato in Brianza col tradizionale metodo andino: zoom su anziano ragioniere cui viene strappato il cuore per rendere fertile la terra.

(Attenzione! Da questo punto in poi fa cagare)

Secondo tempo: gli scienziati del Cern arrivano a Pompei per cercare meglio la particella della Madonna. Discussioni metodologiche su come gonfiare il rimborso spese. Carrello intorno ad Asia Argento, fascinosa capo-ricercatrice.

Stacco: di nuovo in Vaticano. Lunga teoria di Vescovi gira intorno a un enorme involto. Cartello “dobbiamo nasconderlo per il bene dell’umanità!”. Momento di panico: tutti pensavano alla scandalo pedofilia.

Stacco, di nuovo a Pompei. Il team del Cern si imbatte in Alberto Angela, che ormai si è messo di casa nella villa dei papiri. Scintille di sex appeal tra lui ed Asia. “In due facciamo quattro A”, mormora lascivo con le dita.

Stacco: un camion della camorra trasporta qualcosa di misterioso. Viso patibolare, cartello: “addò o’ ittamm?” (sottotitoli: “in quale luogo conviene conferirlo?”). Viso patibolare2, cartello: “ndè case carùte” (sottotitolo: “ma tra le rovine di Pompei come al solito, mio egregio amico!).

Stacco: Alberto ed Asia litigano sui tavoli del matrimonio. “Tuo padre vicino a mio padre no!”, “Ma perché??!”, “Poi gli mette lo skifiltor nella zuppa di fagiano”.

Stacco: delle auto si trasformano in robot giganti e combattono insensatamente per venticinque minuti. Cartello: “se funziona per gli americani, perché per noi no?”.

Stacco. I soldi del ministero sono finiti e si vede, ora gli eventi accelerano: Asia e Alberto percorrono un lungo cunicolo pieno di ossa e rottami e scoprono la discarica abusiva della Camorra di Pompei. Tra lastre di amianto e pozze di liquame radioattivo c’è una specie di gigantesco tappeto arrotolato. Asia vorrebbe subito usarlo come giaciglio per consumare, ma l’Alberto non coglie i suoi SAINS (“lasciami stare vigliacco!”) e prende a svolgere il rotolo…

Finale: luci attiniche, nebbia, musica mistica: svolgendosi, il rotolo rivela l’immagine di un’immensa testa cornuta dagli occhi spiritati e folli. “Il sudario del minotauro!”, sussurra Asia. “Macché”, mima Alberto, “questa è l’impronta di un serafino!”.
“Quasi!”, grida un nuovo cartello, e dal buio della grotta emerge il viso ilare del Gramella. “Adesso vi spiego bene bene!”, continua. “Inchinatevi! Questa è la sindone del Popolo Bue!”.
Silenziosi e riverenti, i tre si allontanano lasciando il loro Dio tra i topi e la spazzatura.

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L’intervista all’autore come mera volgarità

Il principio elementare per cui nessuno può testimoniare a proprio favore viene sistematicamente violato in campo c.d. culturale, dove l’intervista all’autore, regista, musicista è considerata il massimo approfondimento possibile del soggetto, visto che ne parla proprio chi l’ha fatto.

Sarebbe così ovvio vietare rigorosamente all’autore di parlare della sua opera e sbrodolarsi come un cafone, o peggio ancora di fingere di criticarsi come uno sporco ipocrita, che se nessuno lo fa è perché al pubblico non interessa affatto l’opera. È vero che talvolta i giornalisti aggirano il problema intervistando i fan dell’autore, in modo da chiarire l’assoluta nullità del contenuto informativo rispetto all’esaltazione di un sentimento, perché poi il bello della vita sono i sentimenti.

L’unico problema, in realtà, è pretendere che i media ti diano quello che vuoi tu, quando invece ti danno benissimo e in gran copia quello che dovresti volere per essere proprio come gli altri.

P.S.
Qualcuno potrebbe dire: “invece è bello intervistare l’autore, perché se c’è qualche punto oscuro dell’opera possiamo chiedere spiegazioni a lui”.
Il fatto ovviamente è che se l’oscurità deriva da scelta dell’autore, tale dovrà rimanere, mentre se deriva da sua incapacità, allora è un cretino. Quindi chiedere spiegazioni all’autore significa essere cretini, da soli o con lui. Molto meglio confidare negli autori morti, che pur volendo non possono calpestarci i coglioni con le loro rattoppate spiegazioni, e meglio ancora se sono morti nel rogo furioso di tutte le loro carte, così da non poter interrogare vicariamente nemmeno diari privati, appunti scribacchiati su pacchetti di sigarette, memoriali contraffatti da eredi avidissimi e illetterati sempre, misteriosi glifi tracciati col sangue e con lo sterco sulla parete del pollaio.

P.P.S. L’ipotesi che l’autore abbia voluto dire qualcosa di sublime, che l’abbia effettivamente espressa in modo comprensibile, e che il lettore non l’abbia capita per sua pochezza ma possa riuscirci grazie a una spiegazione, è puramente di scuola. Se non ha capito da solo, a casa, con agio per riflettere, col libro davanti, non capirà nemmeno grazie a un’intervista televisiva. Se la cosa sublime si poteva dire in due secondi e in televisione, allora non è sublime.

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Con pochi anni di signorile ritardo

abbiamo visto la serie electric dreams. Temevamo il cagatone, essendo una serie rivolta al popolo, e invece bene o male si può vedere. Qualche appunto su singoli episodi:

Autofac: non male, però tradisce comunque l’idea originaria, e in un modo forse più fastidioso delle semplificazioni per gli ignoranti. Nel racconto le fabbriche sono inquietanti perché non sono intelligenti, mentre nel telefilm lo sono anche troppo. Inoltre manca il dubbio sulla giustezza del comportamento dei sopravvissuti. Puerili e inutili le scene di sesso.

Umano è: l’episodio è quasi uguale al (semplice e breve) racconto di Dick, nonostante gli elementi accessori siano tutti diversi (i personaggi sono anziani e non giovani, il marito è un militare e non uno scienziato, la terra è morente e non verde, gli alieni sono guerrieri e non sopravvissuti etc). Il problema è che il marito del telefilm è molto meno odioso di quello del racconto, e inoltre il processo finale è patetico e serve solo a dire esplicitamente quel che Dick giustamente lasciava implicito: cosa rende umani. Una resa scadente, che si salva solo grazie all’intensità della bellissima protagonista. Scene di sesso gratuite anche qui.

The commuter: non ricordiamo il racconto dal quale è tratto, deve trattarsi di un testo minore. L’episodio, comunque, si conclude in modo nettamente non dickiano. Mentre la prima parte, con la città inesistente e gli strani cambiamenti della vita del protagonista, appartiene al classico stile di Dick (e oggi appare addirittura banale, tante volte è stato copiato), nel finale c’è questa nobile ma non dickesca faccenda che è meglio una vita vera, sebbene piena di dolore, rispetto a una felicità illusoria. La puntata è anche toccante, sebbene un poco ricattatoria, e il protagonista è molto adatto, ma questa in definitiva non è una storia di Philip Dick. 

La cosa padre: che dire… è fatto discretamente, anche considerando che il racconto è uno dei più tradizionali, ma mostra chiaramente un problema più generale: i racconti di Philip Dick spesso sono molto brevi, partono senza preamboli e concentrano l’azione in pochissimo tempo, mentre le puntate di “electric dreams” dovevano durare tutte cinquanta minuti. Di conseguenza, “la cosa padre” è stato gonfiato a 50 minuti e questo l’ha indebolito. Ad esempio, nel racconto non c’è nessuna informazione sul rapporto padre-figlio prima del fattaccio, mentre nell’episodio si perde un quarto d’ora mostrando padre e figlio che giocano a baseball o fanno campeggio. Allo stesso modo, la minaccia del racconto è concentrata su quel ragazzo, su quella famiglia, mentre nel telefilm diventa una minaccia globale. Il racconto prende una sola sera, il telefilm più giorni. Questo allungamento del brodo dipende solo dal mezzo: chi legge il racconto non ha bisogno di sapere che padre e figlio giocavano a baseball, anzi gli nuoce saperlo, perché così quel padre diventa una persona specifica e non IL PADRE, qualsiasi padre, e particolare tuo padre, la sua faccia nascosta. Ma questo forse lo può solo il linguaggio e non la volgare immagine.

Foster, sei morto: in molti episodi della serie gli attori sono bravi, ma la ragazza di “safe and sound”, Foster, è davvero notevole. La rielaborazione del racconto è intelligente, salvo per gli ultimi tre minuti, in cui lo sceneggiatore sente lo stupido bisogno di spiegare quel che si era già capito, eliminando per altro un’ambiguità che invece rendeva tutto più interessante. Il nucleo dell’episodio sembra quello del racconto originale, lo scontro tra un ragazzo che vuole solo essere come gli altri e suo padre che non si adegua a un mondo vile, al “compra o muori”, al vivere nella paura. Però, proprio perché più semplice e più realistico il racconto originale rimane più forte: il vero Foster non vuole il rifugio antiatomico solo perché ce l’hanno tutti, la sua non è solo angoscia perché si sente diverso ma vero e proprio terrore, il dimenticato terrore della guerra atomica: e suo padre non è solo ideologicamente contrario, è proprio troppo povero per comprarlo.

Il mondo di “Foster, sei morto” è molto più spaventoso di quello dell’episodio televisivo, in cui un governo crea finti attentati per tenere tutti sotto controllo: quello del racconto è un mondo in cui un uomo non può permettersi di non far soffrire suo figlio. E dietro non c’è nessun complotto, quello è semplicemente il mondo reale, della gente normale, delle persone comuni, nel suo orrore comune, nella sua inguaribile e squallida normalità. 

Ma l’episodio più curioso è “Crazy diamond“. Non riuscivamo a capire su che racconto fosse basato (infatti non c’entra niente con “Sales pitch”, da cui sostengono sia tratto), eppure ci è sembrato decisamente Dickiano. È l’episodio più confuso di tutti, in alcuni punti è anche ridicolo e dozzinale e sembra composto da vari pezzi che non sono collegati tra loro, o da un insieme di sogni, ed è proprio questa sua stramba e oscura natura composita che fa pensare ai romanzi di Dick: la roba che marcisce in un giorno, le paratie di ferro sotto il terreno, una tecnologia affascinante e ripugnante insieme, le incongrue spruzzate di normalità (la polizza sulla vita) che così appaiono ancora più strane di tutte le altre stranezze, l’ambiguità e la natura demoniaca della donna (anche se non ha i capelli scuri), la musica… tanti frammenti di Dick mescolati senza particolare successo ma almeno con un po’ di coraggio, senza questa onnipresente paura di non essere capiti, senza lezioncina e compitini. Un episodio non bellissimo ma fedele, a modo suo, nello spirito.

Il fabbricante di cappucci: non ricordiamo granché del racconto da cui è tratto. L’ambientazione retrò non è male ed è indovinata la scena delle telepati usate come megafoni delle perversioni sessuali (sebbene anche qui il regista ceda alla viltà di spiegare cosa accade, nel timore che il suo pubblico sia stupido come si suppone sia il pubblico). Il problema è che la storia procede in maniera un po’ illogica (e non è l’illogicità di Dick) e il finale, per quanto giustamente negativo, è comunque solo lo specchio del banale finale positivo: non c’è niente di strano o illuminante in esso. Per questi motivi eravamo pressoché sicuri che il racconto originale fosse molto diverso, e andando a leggere le recensioni del racconto abbiamo avuto la conferma di quel che dicevamo riguardo a “la cosa padre”: chi ha letto il racconto dopo aver visto il telefilm si lamenta che la storia parte senza preamboli e senza spiegazioni, che i personaggi sono descritti in modo troppo sintetico e che lo sviluppo è troppo veloce e troppo breve. In sintesi, si lamentano del fatto di dover immaginare, se non proprio di dover pensare.

E questo ci porta alla fine, a Uccidi tutti gli Altri. Anche qui il protagonista è bravo, alcuni elementi dickiani ci sono (le pubblicità invadenti), ma l’idea del racconto è troppo spalmata e quindi si perde quel sapore di caffè bruciato dell’originale. Inoltre il racconto era a suo modo più sensato perché la trasformazione che colpiva quasi tutti era già avvenuta, nel tempo sempre concentratissimo dei racconti brevi di Dick: nel telefilm invece sembra che la trasformazione sia graduale e ancora in corso, per poi sembrare di botto e inspiegabilmente già avvenuta. Ad ogni modo, il punto è che gli Altri esistono davvero, ma sono dappertutto, sono anche qui: sono quelli che non sanno leggere un testo a meno che non gli mostri tutto, non gli spieghi tutto per filo e per segno, come a dei bambini. Gli Altri non siamo noi, sono loro, e sono la maggioranza. Bisognerebbe davvero ucciderli tutti.

P.S. Completiamo con gli ultimi due episodi, quelli che ci hanno colpito di meno: real life (asseritamente tratto dal racconto “un pezzo da museo“) e il pianeta impossibile (dal racconto omonimo). Real life è completamente diverso dal racconto, contiene un po’ di sesso lesbico piuttosto gratuito ed è basato sulla consueta domanda di Dick “questo mondo è reale?”, il che però non basta a renderlo davvero interessante, anche perché è difficile provare empatia per i protagonisti. Invece il pianeta impossibile sembra un miscuglio tra il racconto originale e uno di Bredbury: il suo finale sognante non è molto dickiano e, come in “umano è”, l’episodio si regge quasi solo sul volto dell’anziana protagonista.

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La giornata del libro nel paese degli ignoranti

Alla bancarella abbiamo comprato un libro ancora intonso. È un po’ rovinato ma nessuno ha mai tagliato le pagine, dal 1947. Cioè non è un libro antico o raro, è semplicemente diventato vecchio senza essere mai letto. Doveva essere un’edizione economica per il popolo modesto ma assetato di cultura. Sarà rimasto sempre in un magazzino? Magari non l’hanno mai nemmeno distribuito, colti da una fitta di lucidità. È il viaggio sentimentale di Sterne e adesso non sappiamo bene se tagliarlo o meno. Non per rivenderlo, varrà circa cinque euro, ma per tenerlo come insegnamento.

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Poi brucia anche la cenere

Nel suo sfrenato dilettantismo la Fondazione ignora quasi tutti i guru del ventesimo secolo. Tranne che per qualche brandello non abbiamo letto Foucault, Derrida, Baudrillard, Deleuze, Husserl, Heidegger, gli italiani poi non sappiamo nemmeno chi siano. Per quanto riguarda gli americani, pare che considerino “filosofo” chiunque non sia strettamente un tecnico, quindi ce ne saranno parecchi. Noi abbiamo letto qualcosa dei più noti che avevano a che fare col linguaggio (Quine, Chomsky, Dennet, Searle, Hofstadter, qualcosa di Marcuse, di Voegelin, Jonas, ma solo sullo gnosticismo, il tutto comunque in maniera caotica). Questo implica che possiamo facilmente dire cose che sono state già dette sessant’anni fa, o anche duecento anni fa, se è per questo. Non che ci si sia mai illusi di dire qualcosa di nuovo, comunque.

P.S. Il fatto che non leggiamo questa gente non dipende solo dalla vaga impressione, quasi un presentimento, che siano sostanzialmente dei truffatori, ma pure da una questione organizzativa. Da molti anni la Fondazione compra solo i libri sulle bancarelle, perché sembra peccato lasciar marcire tutte quella roba. Ci sono persone che recuperano l’immondizia, noi i libri. In effetti non vediamo nessuna ragione per pubblicare nuovi libri, e nemmeno per i ripubblicare i vecchi: ce ne sono talmente tanti in giro che si potrebbero passare mille vite a leggere quelli, e in fondo la bellezza è comune. I libri dei filosofi moderni difficilmente finiscono sulle bancarelle, perché se ne vendono già pochi e poi i loro acquirenti sono tendenzialmente giovani, quindi dovranno passare altri venti-trent’anni prima che i loro eredi buttino tutta la libreria nella discarica o li vendano a chili ai bancarellari.

P.P.S. A proposito di discarica, ogni tanto ci chiediamo che fine faranno i nostri libri quando saremo morti. Ovviamente non parliamo della morte fisica, la prima morte diciamo, ma anche la Fondazione prima o poi finirà e allora che ne sarà di tutti questi libri del cazzo? Con le loro orecchie, le ditate, l’occasionale capello, magari la rara sottolineatura, il segno comunque di un maneggio umano? Dovremmo scrivere su tutti i frontespizi il nome, come si faceva una volta? Ma che cambierebbe? E poi si faceva per i libri preferiti, quelli letti durante l’adolescenza, che parevano vite intere. Si poteva fare finché uno aveva cento, duecento libri, e fino a pochi anni fa molti non ne avevano di più, mentre noi ne abbiamo migliaia! Noi e migliaia di persone, tutti abbiamo migliaia e migliaia di libri, e la maggior parte non li abbiamo neanche letti. Perché scriverci sopra qualcosa o preoccuparci della loro sorte? I libri non letti, quelli dimenticati, abbandonati, scorsi in fretta o con sufficienza, in realtà non sono nostri. E non li vorrebbe nemmeno nessuno. A chi dovremmo donarli, agli immigrati? Ce li tirerebbero appresso. Anche gli italiani, o li prenderebbero solo per andarli a vendere a chili, lamentandosi pure del peso. Forse non è mai stato il tempo giusto per regalare libri ma adesso è persino ridicolo il pensiero. L’unica alternativa ovviamente è distruggerli e visto che l’epoca ci concede il lusso di toglierci la vita dovrebbe anche aiutarci a distruggere le nostre cose. Perché non c’è da fidarsi di testamenti e volontà, la gente non li rispetta. Hai voglia di dire “voglio che questi libri vengano bruciati”… la gente non lo fa, per malintesa compassione o, più spesso, perché è anche un problema pratico bruciare migliaia di libri, come fai? Se accendi un falò qualcuno chiama subito gli sbirri. Quindi ci vuole qualcuno che, magari a pagamento, per forza a pagamento, si incarichi di incenerirli. Brucia tutto, poi brucia anche la cenere. Quello che resta è l’essenziale.

(da qui)

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e di cosa parli tu se non di libri?

Tanti anni fa, quando la Fondazione non si era eretta in ente morale e abitava ancora la forma umana, le capitò di partecipare a un libretto.

In uno dei periodici tentativi di sistemare la nostra libreria, che si interrompono e sovrappongono generando sempre più confusione, ne abbiamo ritrovato cinque copie. All’inizio non ricordavamo nemmeno l’episodio ma chi può avere cinque copie dello stesso testo se non chi l’ha fatto? In base a questo identico ragionamento Elia Spallanzani si dichiarò l’autore delle operette morali.

Una volta capito cos’era il libretto, ci siamo anche accorti che queste copie erano teoricamente destinate a felicitare il prossimo, e che invece ce le siamo tenute. Né ci è mai capitato di vedere l’opera da nessuna parte, nemmeno sulle bancarelle.

Saranno passati vent’anni e di bancarelle ne abbiamo viste migliaia, ma questo libretto non è mai entrato neanche nella classifica di ciò che si butta. A questo punto potremmo prendere le nostre cinque copie e portarle noi al bancarellaro, per niente, si intende, ma poi dovremmo tagliare i rapporti col bieco imprenditore dell’immondizia, onde non correre il rischio di passare di lì per anni e anni e vedere le cinque fottute copie sempre allo stesso posto, tra i volumetti di poesie delle maestre nubili e i ricordi di caccia dei pensionati dell’Inps.

In realtà, l’abbiamo già visto succedere più volte, quei libretti affonderebbero nella morbida superficie degli scarti; a furia di essere rimestati da gente che cerca vecchi topolini e copie senza copertina delle opere del gramella, ingiallite e maculate di sputi catarrosi, che vanno a ruba; a furia di essere rimestati, dicevamo, sprofonderebbero nell’abisso della bancarella, dove la carta si macera dolcemente e il metallo degli inchiostri si ossida lasciando buchi al posto delle palore. Nel giro di qualche decina d’anni (la carta di oggi vale assai poco) diventerebbero inavvertiti polvere, destino che possono compiere più signorilmente dove sono ora, insieme a tutto il resto.

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Fnord

Il 30 gennaio questo blog ha compiuto vent’anni. Noi stessi ce ne siamo accorti con un certo ritardo, forse perché ormai lo davamo per scontato (il blog, intendiamo, no il ritardo). Ma, a pensarci, tanto scontato non è. Ci sarebbero forse altre cose da dire, o più probabilmente sono state già dette, e magari era anche il caso di dirne di meno, in effetti non sappiamo bene, visto da qui tutto sembra irreale. Comunque, quel che sembra poco discutibile è che vent’anni bastano, Elia Spallanzani ha beneficiato abbastanza del nostro apostolato ed è da tempo ora di fare altro, o di non fare niente. Quindi ai lettori va il nostro sentito fnord e un arrivederci alla prossima vita.

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Per gli specchi

“La comprensione non basta rifiutarla, bisogna anche esserne indegni.”
E.S., Raccontalo alla cenere.

Ogni quattro-cinque anni qualche conoscente benintenzionato ci sollecita a realizzare un’opera. Quando obiettiamo (bestemmiando anche cristo) che abbiamo già scritto migliaia di pagine il conoscente di turno scuote la testa, esasperato e addolorato dalla nostra stupidità: quella non è un’opera, sembra dire, è solo un mucchio di roba alla rinfusa (lui non userebbe un termine così antiquato e libresco, ma il senso è quello). L’opera deve avere un inizio e una fine, strutturarsi in una forma intellegibile: un romanzo, un saggio, una raccolta di racconti, qualcosa che si possa consumare in un tempo definito, no ‘sta specie di eterno blaterare*.

Il conoscente** sembra davvero angustiato, come se informato per vie officiose ma sicure di un nostro imminente decesso temesse lo sparimento nel nulla di tanto artista. Si dice ansioso, smanioso di vedere questa grande opera che riluttiamo a compiere, di portarla alla luce e farla capire al poppolo. A sentire lui, noi avremmo un sacco di apostoli altrettanto ansiosi di portarci alla ribalta, purché ci decidiamo a cacare quest’opera, l’Opera, la Grande Opera che il mondo aspetta e di cui avrebbe persino bisogno.

In effetti il fan sembra deluso e anche indispettito dalla nostra pigrizia e infingardaggine, da questo eterno giocherellare senza costrutto con le nostre feci. Lui sarebbe entusiasta di quest’opera congetturale ma di quello che scriviamo noi si è rotto i coglioni da almeno quindici anni: non sopporta letteralmente più di vedere i nostri frammenti che si accumulano come lo sfrido e una rapida indagine porta a scoprire che non solo non ci legge, ma nasconde addirittura i post, perché non sono mai ciò che si aspetta e che in fondo reputa dovuto e impossibile: l’Opera, il pezzo compiuto, la statua iperrealistica o la piriforme astrazione che sarebbe il nucleo di tutto questo nostro scalpellare e buttare, il positivo dei calchi imperfetti, l’oggetto centrale continuamente eluso e, in definitiva, quello che ha in mente lui ma non noi.

È anche chiaro che questo suo lutto per l’immorale spreco di un nostro presunto talento è anche un modo di compatirci e perciò di disprezzarci: lui ci ha ormai classificato nella categoria dei conoscenti che, al contrario di lui, sprecheranno tutta la vita a suonare il basso in piccoli gruppi dall’instabile formazione che si esibiscono quando va bene nei bar del paese. È sottinteso che lui da questa pagliacciata infantile è uscito, o appendendo il basso o diventando un turnista, e lo spettacolo che offri tu conferma piacevolmente la ragionevolezza della sua scelta.

Ciò non vuol dire che la sua sollecitudine non sia genuina: un altro sè, che concentra i lati positivi e negativi della nostra antica stupidità, è sempre guardato con quel misto di disprezzo e ammirazione che nutriamo per noi stessi, o per un figlio che nonostante la sua palese idiozia riproduce pur sempre la nostra forma. Resta comunque il fatto che quest’ opera non verrà fuori, e anche ciò rientra nel modello comportamentale previsto.

L’importante, quando si trasformano gli altri in specchi, è che restino come sono: specchi magici, che ritengono l’immagine di un tempo, compreso il suo essere sul punto di mutare, e non mai farlo.

Chiusi nelle cantine, specchi viventi ma in loop (una fotografia non farebbe lo stesso effetto, nella sua adulta compiutezza), specchi che non è neanche più necessario guardare perché sai già cosa mostrano. Possiamo dirlo con ragionevole certezza perché anche noi ne abbiamo alcuni.

*”Il problema”, osservò Elia Spallanzani, “è che mi definisco scrittore ma se domani un editore venisse a cercarmi non avrei nulla da dargli: non un romanzo, non una raccolta di racconti: nemmeno qualche articolo sagace. Io ho solo una gran massa di note, bozze, appunti: tutte cose validissime ma è più o meno come se un fornaio ti vendesse la farina”.

**Quando siamo costretti a qualche squallida mansione materiale la nostra mente vaga e (questo tra l’altro è il motivo per cui svolgiamo male la mansione) vaga e spesso comincia a scrivere il ritratto di un conoscente, in quello stile “presentazione del personaggio” che era tanto in voga due secoli fa. Era un giovine così e cola, e suo padre una volta aveva detto etc. Siccome poi è difficile scrivere mentalmente frasi lunghe e fitte di incisi, perché mentre procedi ti dimentichi le parole di prima, il nostro pensiero torna più e più volte sulle stesse porzioni e le modifica leggermente, e poi le modifica ancora, e ancora, come una specie di mulinello che gira all’infinito con piccole increspature. E andando avanti, mentre il ritratto si precisa e, chissà perché, tende sempre ad assumere un po’ la forma di un epitaffio, quelle frasi così penosamente estrutte svaniscono lo stesso dalla memoria. Dopo centinaia e centinaia di esperienze possiamo dire che restano sempre solo l’inizio e la fine, proprio come… ma questo non vorremmo pensarlo.

P.S. Forse questo dipende dal fatto che a volte abbiamo l’assurdo dubbio che i nostri conoscenti, invece di essere felici e onorati della nostra conoscenza, se ne infottano ampiamente di noi e pensino invece ai meschini casi loro. Se fossero davvero persone degne starebbero qui ad aiutarci nella squallida mansione materiale. L’aver carpito la nostra confidenza, approfittando della nostra proverbiale magnanimità, dovrebbe essere punito almeno con la morte.

(da qui)

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Che ogni novità è solo oblio (di nuovo)

Qualche giorno fa leggevamo notizie allarmanti sulla diffusione in America della dipendenza da antidolorifici. Oggi rileggendo un vecchio racconto di King, L’arte di sopravvivere, abbiamo notato che il protagonista è un medico-spacciatore che prescrive antidolorifici con facilità e dà per scontato, quarant’anni fa, che sia una pratica nota e comune.

In un altro racconto della stessa raccolta, La nebbia, i negatori dell’evidenza vengono chiamati il club della terra piatta: segno che non solo gruppi simili già esistevano, ma erano anche già noti al grandissimo pubblico di un autore super popolare.
Volendo si potrebbe andare avanti ma già così sembra di poter dire che le notizie e i fenomeni che internet spaccia come nuovi e allarmanti vengono più dalla letteratura popolare che dalla realtà, o comunque erano già stati individuati e pubblicizzati da quella narrativa popolare. E il fatto che la rete più che un canale di notizie sia una forma di narrativa popolare, come i giornali dei parrucchieri e le chiacchiere del bar, è semplicemente un’ovvietà. L’unica precisazione necessaria è che è sempre di più un racconto popolare americano di quarant’anni fa.

P.S. Ne deriva che quando abbiamo letto per la prima volta questi racconti, quasi trent’anni fa, li abbiamo capiti meno di ora, che siamo talmente immersi nella pseudo realtà della narrativa americana (spacciata da mondo reale e ulteriormente sputtanata in proporzione ai tempi) da somigliare molto ai lettori popolari che King supponeva all’epoca, e a cui mirava.

P.P.S. Pur sapendo di essere pedanti, vogliamo precisare che trent’anni fa il riferimento al club della terra piatta per noi doveva essere qualcosa che aveva un sapore medioevale, e che probabilmente suonava anche strano in bocca a un americano: noi dovevamo supporre che l’americano medio fosse troppo ignorante per sapere che un tempo la terra era stata considerata piatta. Non sapevamo che invece c’erano già, o comunque erano stati già creati dalla stampa popolare, dei gruppi di gente che continuava a sostenere che la terra è piatta. Il riferimento era, diciamo, a una stramberia popolare, e quindi in tono con l’ambiente e i personaggi di King.

(da qui)

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Un’articolazione più semplice e più dimessa

Col tempo abbiamo accumulato un sacco di pezzi del trenino ikea, metri e metri di binari, scambi, diversi ponti, le casette e i segnali, gli alberelli. Abbiamo anche un fottio di vagoni, la locomotiva che cammina da sola e un semaforo che cambia davvero colore (non ikea). C’è una stanza riservata al trenino, parquettata, col soffitto così alto che dentro ci si sente l’eco, anche perché a parte il trenino è vuota. E’ tutta roba presa così, senza un piano: periodicamente cambiamo il percorso e ogni volta ci manca qualche pezzo per chiudere, quindi compriamo un’altra confezione, che ovviamente non contiene solo il pezzo che ci serve ma anche altri, e quindi cambiamo un’altra volta il percorso per metterci anche quelli, ma ci manca un pezzo per chiudere, e così…

Messa a terra la ferrovia non fa grande impressione; avevamo pensato di comprare un grande tavolo, più o meno delle dimensioni della stanza, e di mettercela sopra, ma poi abbiamo pensato che tenendola a terra forse è più facile giocarci, e comunque un tavolo di quelle dimensioni costerebbe caro, a parte la difficoltà, anzi l’impossibilità di farlo passare per la ripida scala e poi le porte. Inoltre il tavolo implicherebbe anche la necessità di metterci una sorta di panno verde o qualcosa di simile, per simulare una sorta di prato, mentre finché sta a terra, sul mutevole parquetto, non avvertiamo questa esigenza.

La nostra ferrovia è ovviamente molto povera rispetto a quelle che si vedono nelle stanze degli eccentrici dei film. Non si tratta di una miniatura, non c’è rispetto della storia, mancano precise ricostruzioni di vagoni speciali del 1938 o delle tipiche casette svizzere, quelle dove gli infami accumulavano l’oro degli ebrei massacrati e oggi accumulano i soldi delle camorre. Non ci sono mini alberi fronzuti e squisite riproduzioni di mini mucche che muovono anche la coda, il treno non è neanche elettrico: nella locomotiva (dalla forma semplicissima) c’è solo una squallida pila.

La nostra ferrovia è un’astrazione di ferrovia, composta da un numero limitato di pezzi a loro volta composti da un numero molto limitato di piani e di incavi. Questo scheletro di ferrovia ci piace, o comunque a lui ci rassegniamo, esattamente perché così privo di dettagli, anzi l’unico difetto è che forse alcuni vagoni sono troppo colorati.

C’è stato un tempo in cui amavamo i dettagli, compravamo miniature di piombo e le dipingevamo anche, sebbene con scarsissimi risultati essendo daltonici, e costruivamo anche le casette munendole di imposte e di tegole, oppure gli alberi, che cercavamo di rendere più sfrangiati e naturali possibili. Andavamo alla ricerca di pietre che avessero l’aspetto di rocce, con una superficie tormentata che desse l’idea di una grande quantità di minuti dettagli e quindi di un oggetto enorme visto da lontano. Ma col tempo tutta questa apparente complessità ci ha stancato, e poi ci ha stomacato. Man mano che avevamo sempre meno soldi per costruire un mondo in miniatura per fortuna perdevamo anche la voglia di farlo.

Sicuramente avremmo avuto più possibilità di scrivere un romanzo vent’anni fa che adesso, e più di scrivere un racconto dieci anni fa che adesso. La misura del nostro sforzo si è ridotta sempre di più, le figure si sono semplificate, le trame ischeletrite, la quantità di vocaboli ridotta: dal racconto al paragrafo alla frase alla sentenza, tutto è diventato sempre più semplice e netto, e i pezzi hanno cominciato a somigliarsi finché non ci sono rimaste che sette-otto frasi che possiamo combinare a volontà e farci correre sopra la nostra squallida locomotiva a pila. “Squallido” curiosamente significa alla lettera “aspro, squamoso”, mentre noi avevamo sempre pensato che volesse dire “nudo”, e secondo noi dovrebbe voler dire “nudo”.

(ps. da qui)

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Chi poteva prevederlo

La tragica storia del ti-99/4a potrebbe insegnare qualcosa, ma non frega a nessuno.

Il primo home computer a 16 bit fu prodotto dall’81 all’83, vendette più di 2 milioni e mezzo di pezzi e provocò alla Texas Instruments una perdita calcolata tra i 300 e i 600 milioni di dollari. Le cause del fallimento furono molte: il ti99 era caro e poco performante, i prezzi del settore scendevano vertiginosamente e il software disponibile era mediocre.

Il computer era nato male, pieno di buone intenzioni e con tendenze educative ma scarso sia come videogioco che come strumento di lavoro. La sua costosa cpu, tecnicamente molto avanzata, non era quella che doveva montare, e ce l’avevano messa perché non erano riusciti a sviluppate in tempo la versione adatta. Era a 16 bit, ma contornata da un’architettura a 8 bit, con pochissima memoria veloce (solo 256 byte) e con una sorta di macchina virtuale interna su cui girava un linguaggio proprietario della TI.

Il basic del ti99/4a era famigerato per la sua lentezza e la doveva al fatto che veniva interpretato due volte: prima nel linguaggio proprietario e poi da quello in assembly. Il risultato per l’utente era che un computer 16 bit a 3 mhz di clock era lento come un vic20 (8 bit, 1 mhz), che costava molto di meno.

La Texas Instruments reagì alla concorrenza, che stava diventando spietata, abbassando i prezzi addirittura sotto il costo di produzione, ma c’era un altro problema: siccome aveva rinunciato a guadagnare sull’hardware, pensava di rifarsi col software e cercava di essere l’unica a poterlo produrre. Teneva segrete molte caratteristiche avanzate del sistema, non accessibili dal basic, e quindi dopo un po’ le software house smisero di produrre o convertire giochi per il TI99.

Ancora più a monte, il problema era il pubblico: la Texas Instretc. pensava, o fingeva di pensare, che le famiglie avrebbero comprato il Ti99 per gestire le spese di casa, programmare diete e allenamenti, insegnare ai figli la matematica e lo spelling: ma famiglie del genere non ce n’erano, e probabilmente non ce ne sono mai state. I bambini volevano i videogiochi, i genitori al massimo un wordprocessor, ma col suo schermo di 32×24 il Ti99 come wordprocessor faceva cagare, e poi sarebbe servito almeno il costoso floppy per non impazzire con le cassette. Persino i joystick facevano cagare, avevano solo 4 direzioni ed erano di una forma strana e scomoda. Per quanto poi riguarda i numerosi software educativi, la gente probabilmente li odiava.

Errori nell’individuare il settore di mercato, errori nello sviluppo, errori sul software, ma la versione ufficiale della Texas Instruments è completamente diversa: secondo l’azienda andava tutto abbastanza bene, la concorrenza era terribile ma su questo non potevano farci nulla, il software era molto apprezzato, il progetto insomma era un successo finché non accadde la catastrofe: qualcuno prese la scossa con l’alimentatore del ti99. Allora l’azienda, che come tutte le aziende aveva a cuore solo il benessere del popolo, fermò tutto per risolvere il problema: ma le costò 50 milioni e due mesi di vendite ferme, da cui la tragica ma coraggiosa scelta di uscire dal mercato degli home computer.

Questa versione è particolarmente bella perché scarica tutta la colpa sulla bassa manovalanza: è vero che ci furono problemi con l’alimentatore, ma il ti99 stava affondando già da parecchio, tant’è che anche quando il problema fu risolto la gente continuò a non comprarlo se non a prezzo stracciato, addirittura a 49 dollari (il vic 20, nel suo assoluto squallore, costava di più). La storia dell’alimentatore però evitava sgradevoli considerazioni sul management della società e anche sulla sua élite ingegneristica: era un po’ come dire “non è che non sapevamo cosa stavamo facendo, o che abbiamo messo un costoso motore a 16 bit in un’ape car, o che non ci siamo resi conto che senza software a basso costo eravamo fottuti: no, è che l’alimentatore (per altro subappaltato) poteva in un caso su un milione dare la scossa, e allora ci siamo sacrificati per la vostra sicurezza”.

Non solo: l’azienda proclamava con orgoglio che avrebbe continuato a sostenere per quanto possibile gli acquirenti dell’ottimo ma sfortunato prodotto, mentre nella realtà quelli che l’avevano comprato a 49 dollari lo buttarono e quelli che invece l’avevano pagato 500 (tanto costava in origine) dovettero armarsi di schemi elettronici e saldatori per cercare di tenere in vita l’investimento e munirlo del minimo indispensabile per farci qualcosa.

Questa loro sorte di orfani ha prodotto, in alcuni casi, un attaccamento morboso al vecchio computer: ancora oggi, dopo 36 anni, ci sono appassionati che lo aggiornano, lo collegano a internet, ci infilano dentro chissà come schede di memoria da 3 mega e dischi rigidi, e addirittura producono giochi scritti in assembly e li mettono sulle cartucce di una volta. Per i nostri lettori, che non sanno programmare nemmeno la sveglia, forse non è facile immaginare il lavoro immenso che ci vuole. In questi giorni abbiamo visto dragon’s lair che gira su un ti99: incredibile, folle, eppure l’hanno fatto.

Certo cose del genere accadono anche con altri vecchi computer: sul c64 realizzano ancora cose strabilianti ma i fan del ti99/4a meritano molto di più perché non si sono attaccati a un successo, ma a un fallimento, e poi in quattro gatti e sfidando un’architettura anomala e complicata hanno insistito per più di trent’anni nella quasi totale oscurità.

A questi eroi del fallimento va tutta la nostra stima e anche un po’ di invidia: noi puccioppo il ti99/4a l’abbiamo perso durante un trasloco più o meno nel 1984, ma non l’abbiamo mai dimenticato: anzi, ci siamo sempre sentiti in colpa per non essere ammattiti appresso a lui.

P.S. Un eroe a caso, e non è il più accanito: https://www.nightfallcrew.com/tag/ti-994a/?lang=it

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Prendetene buona nota.

Circolare 537-13-2020
Ai soci, loro sedi

Obietto: del modo di nominare.
Priorità: ultravioletto.

Egregi,
sodali,
compagni!
Ci giungono segnalazioni di soci che usano familiarmente espressioni quali “lo Spalla”, “l’Elia”, “il nostro”, “lo zio” ed altrettali per riferirsi ad E.S.
Sebbene negli ultimi trent’anni la Fondazione abbia tollerato queste forme, che esprimono comunque l’affetto e la devozione dei soci, ora che dopo tanti sforzi siamo giunti alle soglie della glauria accademica simili confidenze non sono più accettabili.

D’ora innanzi i soci sono tenuti a usare “lo Spallanzani”, o al massimo “lo Elia Spallanzani”, trattandosi di autore serio, di scrittore laureato, se non addirittura di giornalista prestato alla scrittura, quindi meritevole del massimo rispetto.
Tutte le deviazioni saranno severamente punite, fino all’ostracismo. Eventuali recidivi saranno bruciati in effige. Tenetevelo per detto.

L’occasione è gradita per ricordare ai soci che qualora fossero in ritardo col versamento della quota annuale (e sappiamo di chi stiamo parlando, come sappiamo dove abita) possono ancora mettersi in regola senza sanzioni fino al 29 febbraio. In mancanza scatterà l’escalation.

Salutando signorilmente,
La Fondazione (fnord)

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